98 – Gli anni ’70, la fine dell’innocenza
Trascrizione dal podcast Salvatore racconta, episodio pubblicato il 4 febbraio 2023.
Distribuito con licenza Creative Commons CC-BY 4.0 non commerciale.
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Il 28 febbraio del 1970 al casinò di Sanremo si tiene la serata finale del Festival della canzone italiana, giunto alla sua ventesima edizione.
La vittoria va ad Adriano Celentano e a sua moglie Claudia Mori, premiati per la canzone intitolata Chi non lavora, non fa l’amore. È un pezzo leggero e ballabile, ma ha qualcosa che causa polemiche.
La canzone parla di un uomo che torna a casa e vorrebbe fare l’amore con sua moglie, ma lei si nega. È arrabbiata con lui perché da giorni non fa altro che scioperare. Invece di comportarsi da serio padre di famiglia e di portare il pane a casa.
Raramente le canzoni di Sanremo hanno qualcosa a che fare con l’attualità. Quella però sì, in modo fin troppo evidente.
Pochi mesi prima, c’era stato l’autunno caldo, settimane di scioperi degli operai che avevano messo a soqquadro le grandi città industriali e alla fine avevano ottenuto quello che volevano. O almeno, una parte.
E ora venivano presi in giro da una canzone di Sanremo.
Forse qualcuno, tra i giurati del festival, pensava che fosse tutto finito. Che sarebbe tornato tutto alla normalità.
C’erano state le proteste degli studenti, poi quelle degli operai e poi quella spaventosa bomba a piazza Fontana a Milano. Ma ora basta, no? Ritorniamo alla vecchia Italia che lavora, mangia, beve e si diverte, giusto?
Giusto un corno.
Gli eventi del 1969 erano solo un assaggio di quello che sarebbe successo negli anni Settanta.
Un decennio pieno di paura e di dolore, di misteri mai risolti, di estremismo e di complotti. Un decennio in cui era impossibile non avere opinioni politiche, e allo stesso tempo era pericolosissimo averne.
Un decennio che per qualcuno non è mai finito, perché ha lasciato delle ferite che non sono mai guarite.
Con l’episodio di oggi iniziamo a guardarci dentro. Per capire un po’ cosa è successo negli anni 70 italiani, nel momento della fine dell’innocenza.
L’Italia era un Paese atipico sin dalla fine della seconda guerra mondiale.
Era un Paese filoamericano, ma con un fortissimo Partito Comunista al suo interno.
Era un Paese uscito da una dittatura fascista e che in teoria aveva l’antifascismo nella Costituzione, ma molte persone che avevano ruoli di potere e ai tempi di Mussolini continuavano ad averli. E un partito dichiaratamente erede della tradizione fascista era regolarmente rappresentato in parlamento.
L’Italia era un Paese in cui tutti amavano le canzonette, i ciclisti veloci, i calciatori estrosi. In cui tutti andavano in chiesa la domenica e fondamentalmente erano felici. Eppure era anche un Paese che era pieno di rabbia e di insoddisfazione, una cassa di dinamite pronta a scoppiare.
Per primi si erano ribellati i giovani, nelle università. E poi erano arrivati gli operai, nelle fabbriche.
E poi ancora c’era stata piazza Fontana. Una bomba lasciata dentro una banca che aveva fatto 17 morti, 88 feriti e milioni di italiani terrorizzati. La stampa, la polizia, la politica erano tutti d’accordo nel dire che la colpa era chiaramente dei rossi, come si diceva all’epoca. Dei comunisti. Anzi, degli anarchici. Dopo le proteste, ora anche questo.
Magari qualcuno ci credeva davvero, ma sicuramente in tanti sapevano già quello che oggi sappiamo noi. Gli anarchici non c’entravano niente con piazza Fontana. La responsabilità era di un gruppo neofascista chiamato Ordine Nuovo, che aveva un obiettivo chiaro.
Convincere il governo che quella pericolosa energia rivoluzionaria non si sarebbe fermata alle università e alle fabbriche, ma avrebbe portato l’Italia nel caos. E che il modo migliore per evitare tutto questo sarebbe stata una dittatura di destra. Dura contro i comunisti e i rivoltosi, per rassicurare le persone per bene e riportare l’ordine.
Alla fin fine, che ci sarebbe stato di così strano in una dittatura di destra in Italia? Nello stesso periodo ce n’erano altre tre in Europa. Quella di Salazar in Portogallo, quella di Franco in Spagna e quella dei colonnelli in Grecia. Nella mappa dell’Europa del sud mancava davvero soltanto l’Italia.
Dopo Piazza Fontana però il governo aveva mantenuto la calma. Niente stato d’emergenza. Niente leggi speciali. Andiamo avanti con normalità.
E per qualche mese, avevano sperato davvero che fosse effettivamente davvero tornata la normalità. Che degli scioperi si sarebbe potuto parlare scherzando nelle canzoni e che le bombe sarebbero rimaste un brutto ricordo.
Purtroppo per l’Italia, quella era solo la punta dell’iceberg. L’inizio di un periodo di violenza che sarebbe durato altri dieci anni.
A partire dal Golpe Borghese.
Il Principe Junio Valerio Borghese era un personaggio piuttosto famoso nell’Italia degli anni ’60. Fascista convinto, durante la seconda guerra mondiale aveva guidato una divisione militare famosa per la fedeltà assoluta dimostrata a Mussolini e alla Germania nazista.
Come tutti i militanti di estrema destra in Italia, era molto preoccupato per quello che era successo negli ultimi anni. Le proteste e le occupazioni lo avevano convinto che il rischio di una rivoluzione comunista fosse imminente.
Era un uomo molto ricco, carismatico e pieno di contatti, soprattutto nel mondo militare. Bisogna dire che, per motivi organizzativi e per mancanza di coraggio, moltissimi ufficiali dell’esercito, dei carabinieri e della polizia del periodo fascista erano rimasti al loro posto anche dopo la fine della guerra. E molti di loro erano rimasti sinceramente fascisti, anche se avevano giurato fedeltà alla repubblica.
Borghese li conosceva bene e grazie a loro, per un anno intero, aveva organizzato un colpo di Stato. O un golpe, come si diceva allora, con una parola spagnola molto usata nei contesti sudamericani. Piazza Fontana aveva dimostrato che il governo non avrebbe ceduto il potere con le buone maniere, e allora bisognava provare con le cattive.
Grazie alla sua associazione estremista chiamata Avanguardia nazionale, e ai suoi contatti nei posti di comando giusti, Borghese aveva organizzato un piano preciso fino al minimo dettaglio. I suoi uomini avrebbero occupato alcuni ministeri e la sede della Rai, altri invece avrebbero catturato e arrestato i principali esponenti del Partito Comunista e del Partito Socialista, e lui in persona avrebbe parlato per radio agli italiani dichiarando di avere preso il potere per il bene dell’Italia contro i suoi nemici.
Tutto era programmato per la notte dell’8 dicembre del 1970. Eppure, italiani e italiane il giorno dopo si sono svegliati tranquilli come se niente fosse successo. E perché?
Perché effettivamente quasi niente era successo.
Un gruppo degli uomini di Borghese era andato al ministero dell’interno dove qualcuno di loro fiducia gli aveva dato l’accesso all’armeria e consegnato fucili e pistole. Era la prima parte del piano. Ma poi era arrivata, in piena notte, la comunicazione di Borghese in persona: fermate tutto.
Perché questa decisione improvvisa? Qui si entra nel campo delle speculazioni.
La più accreditata oggi è che Borghese avesse capito all’ultimo momento che l’appoggio che aveva dentro lo Stato italiano era meno solido di quanto pensasse.
Oggi sappiamo che i servizi segreti americani erano al corrente del piano di Borghese e che lo hanno lasciato fare perché erano sicuri che non sarebbe andato a buon fine.
Effettivamente quella notte alla fine nessuno si è fatto male, ma dopo Piazza Fontana si era aperta una nuova ferita. Per la seconda volta in un anno, qualcuno aveva provato a distruggere la repubblica e ci era andato davvero vicino.
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Le notizie sul golpe Borghese sarebbero uscite sui giornali italiani soltanto un anno dopo. Il governo aveva preferito mantenere il silenzio su quell’evento, anche perché era una fase molto complicata. Dopo piazza Fontana, c’era in giro per l’Italia una paura quasi paranoica verso la possibilità di un colpo di Stato e la Democrazia Cristiana, il partito che controllava il governo, aveva preferito mettere tutto a tacere.
Come avrebbero reagito alla notizia di un colpo di stato gli studenti, gli operai e tutti quei militanti di estrema sinistra che erano sempre più radicali e arrabbiati?
Ormai molti giovani di sinistra non avevano più nessuna fiducia nel Partito Comunista che, secondo loro, aveva rinunciato alla rivoluzione. E non avevano più nessuna fiducia nell’Unione Sovietica, che era sempre meno un modello e sempre più uno Stato oppressivo e indifendibile. I nuovi miti della sinistra venivano da altre parti: il guerrigliero sudamericano Ernesto Che Guevara, la resistenza dei Viet Cong in Vietnam, e soprattutto la rivoluzione culturale di Mao in Cina.
Dalla fine degli anni Sessanta, giravano nelle università e non solo libriccini che parlavano di rivoluzione, di lotta armata e di guerriglia. Che spiegavano per filo e per segno come costruire una molotov o come organizzare la resistenza sotto una dittatura.
Erano libri che facevano presa, perché sempre più persone erano convinte che il ritorno del fascismo fosse questione di tempo e che bisognava farsi trovare pronti a combattere.
Il 14 marzo del 1972 c’è un uomo che ci crede fermamente. Ha preparato una piccola bomba artigianale con cui vuole fare esplodere un traliccio elettrico alla periferia di Milano. Il tentativo però non va a buon fine. La bomba gli esplode in mano e lo uccide. Quando lo ritrovano, il giorno dopo, i documenti che ha addosso sono di un certo Vincenzo Maggioni, ma si scopre presto che si trattava di un uomo molto conosciuto. Giangiacomo Feltrinelli, fondatore di un gruppo rivoluzionario comunista, ma soprattutto proprietario e della casa editrice Feltrinelli che esiste ancora oggi, e che controlla anche la più grande catena di librerie italiane. Ci siete entrati sicuramente, almeno una volta.
Il tentativo maldestro, e tragico, di Feltrinelli non è isolato. Anzi, è il sintomo di una società che si sente in guerra e si comporta come se fosse in guerra.
E che succede in guerra se uccidono uno dei tuoi? Che provi a uccidere uno dei nemici.
Il giorno dell’attentato a Piazza Fontana, la polizia di Milano aveva dato la colpa della strage al movimento anarchico e aveva arrestato preventivamente un suo esponente, il ferroviere Giuseppe Pinelli.
Pinelli naturalmente non aveva niente a che fare con la bomba di Piazza Fontana, oggi lo sappiamo, ma la polizia di Milano lo ha interrogato per tre giorni di fila. Dov’era, che faceva, cosa sapeva della bomba. E dopo tre giorni di interrogatori esasperanti, Pinelli è caduto dalla finestra della stanza in cui si trovava ed è morto sul colpo. Una finestra aperta a Milano a dicembre? E com’è possibile che sia semplicemente caduto. Qualcosa non quadra. Non sembra un incidente, ma un vero e proprio omicidio. Commesso da chi? Dalla polizia, che lo stava interrogando, e in particolare dal commissario Luigi Calabresi.
È una teoria forte, con poche prove, ma gli ambienti di estrema sinistra ne sono sicuri. Pinelli è morto, ammazzato da Calabresi. Che dal giorno dopo viene continuamente citato sulle pagine di un giornale di estrema sinistra che si chiama Lotta Continua. Lo chiamano assassino, fascista, criminale. Finché decidono che le parole non sono sufficienti e che bisogna passare alle azioni.
Il 17 maggio del 1972, due uomini aspettano il commissario Calabresi sotto casa sua, a via Cherubini a Milano. Gli sparano e lo uccidono. Pinelli, dal loro punto di vista, è stato vendicato.
Ma come può un gesto del genere portare giustizia? Non lo fa, ma nessuno cerca giustizia in quegli anni. Solo vendetta, al massimo. Gli scontri tra militanti di estrema destra e di estrema sinistra sono all’ordine del giorno.
Le autorità non ci capiscono più niente. A Roma i governi durano da Natale a Santo Stefano. Nella democrazia Cristiana, partito centrista e ago della bilancia della politica italiana, c’è chi dice che bisogna allearsi con la sinistra di nuovo, chi invece crede che sia giusto portare il Paese a destra.
Ma il Paese se ne infischia di quello che dicono in parlamento. L’Italia combatte per le strade una guerra che a molti sembra giusta e necessaria.
Il 9 marzo del 1973 cinque militanti neofascisti rapiscono, stuprano e torturano l’attrice Franca Rame, moglie del futuro premio Nobel Dario Fo e famosa attivista femminista e comunista. Lo stupro su Franca Rame è una specie di vendetta simbolica, il segno di un odio antropologico incolmabile e di un Paese che ormai è gravemente malato di violenza.
L’orrore, tuttavia, non appartiene solo alla destra. Arriva anche da sinistra, uguale e contrario.
La notte del 16 aprile del 1973, due militanti legati a un gruppo che si chiama Potere Operaio si recano nella periferia di Roma davanti all’appartamento dove vive Mario Mattei, un dirigente locale del partito postfascista noto come Movimento Sociale. Cospargono la porta della casa di benzina e le danno fuoco, appiccando un incendio che presto brucia tutta la casa. Mattei si salva, così anche sua moglie e le sue figlie. I due figli maschi invece muoiono bruciati vivi sul balcone di casa. Virgilio, 22 anni, e Matteo 8.
Sono passati solo tre anni da quando Celentano cantava Chi non lavora, non fa l’amore. E l’Italia, che credeva che fosse tutto finito, è esplosa. Con i neofascisti che organizzano colpi di Stato e i comunisti maoisti che uccidono innocenti per le strade.
In mezzo, lo Stato incapace di agire. Bloccato dalla sua stessa burocrazia, manipolato da poteri interni ed esterni.
E la situazione non è destinata a migliorare. Arriveranno altre bombe, altro sangue, altra guerra.
Qualcosa di cui parleremo la prossima volta.
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