94 – 1969, dall’autunno caldo a Piazza Fontana
Trascrizione dal podcast Salvatore racconta, episodio pubblicato il 7 gennaio 2023.
Distribuito con licenza Creative Commons CC-BY 4.0 non commerciale.
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Cosa si fa il 12 dicembre di solito?
È una domanda vaga. Si possono fare tante cose. In fondo è un giorno normale.
Il 12 dicembre del 1969 sembrava non dovesse distinguersi proprio in niente dagli altri. Certo, qualcuno quel giorno è nato, qualcuno è morto, qualcuno si è innamorato e a qualcuno si è spezzato il cuore, qualcuno ha trovato un lavoro nuovo e qualcun altro è stato licenziato.
Qualcuno era a casa, qualcuno al lavoro, qualcun altro ancora per esempio è andato in banca.
Nel pomeriggio del 12 dicembre del 1969, alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana, nel centro di Milano, c’erano molte persone.
Nel pomeriggio è entrato un uomo con una valigetta. Nessuno lo ha notato, non c’era niente di strano del resto. E poi erano tutti impegnati a fare le proprie operazioni. Versamenti, prelievi, saldi, cambio di assegni.
A un certo punto l’uomo con la valigetta è uscito, ma la valigetta è rimasta.
E dopo qualche minuto è esplosa.
Perché non conteneva soldi o documenti, ma 7 chili di tritolo. Una quantità di esplosivo sufficiente a fare saltare in aria la sala centrale della banca ferendo 88 persone e uccidendone 17.
17 persone che quel giorno avevano tanti piani, pensieri, preoccupazioni. E che invece sono morte, uccise da una bomba nel centro di Milano.
Le vittime innocenti di una strage criminale.
È la strage di Piazza Fontana, quella che chiude l’autunno caldo del 1969 e che apre gli anni di piombo.
Sono sicuramente parole ed espressioni che hai sentito nominare in articoli di giornale, libri e nei contenuti in italiano.
Questa è la serie Storia di Salvatore racconta, dove ti racconto la storia italiana in modo semplice e chiaro, adatto a chi studia italiano.
E oggi proviamo a capire cosa è successo a Piazza Fontana.
E perché ancora oggi quella bomba è una ferita aperta nella nostra storia e nella nostra democrazia.
Come abbiamo raccontato nell’episodio 90, il 1968 era stato l’anno della protesta studentesca.
I giovani avevano capito che quel mondo non era fatto per loro e avevano iniziato una serie di proteste che prima riguardavano cose come i voti degli esami o le aule universitarie ma che poi, a valanga, avevano messo in discussione tutta l’idea della società.
Dopo mesi di proteste, avevano ottenuto delle vittorie. E soprattutto avevano ottenuto la consapevolezza che, protestare era giusto e normale e che alla lunga qualcuno li avrebbe ascoltati.
Erano giovani, sfrontati, non riconoscevano autorità ai partiti, alle associazioni, ai sindacati e alla Chiesa. Ovvero a tutti quei mondi che, in un modo o nell’altro, davano forma alla società e ne governavano lo status e i cambiamenti. Avevano capito che la società stava cambiando e che le strutture attuali non erano in grado di capire né tantomeno di gestire la cosa.
E i giovani avevano ragione. Destra e sinistra, cattolici e comunisti, conservatori e progressisti. Tutti allo stesso modo non ci stavano capendo niente.
Del resto, i cambiamenti in corso erano veloci e radicali e non riguardavano solo gli studenti. Anzi, a dire il vero, loro erano solo la punta dell’iceberg.
La società italiana del dopoguerra aveva conosciuto improvvisamente un altro gruppo sociale: gli operai.
Naturalmente c’erano fabbriche e industrie in Italia anche prima della guerra, ma quella era una società ancora prevalentemente agricola.
Il dopoguerra, con il boom economico, ha portato alla nascita della grande industria italiana. Automobili, meccanica, telecomunicazioni. E migliaia e migliaia di famiglie che si sono trasferite dalla campagna in città e da sud a nord per lavorare in fabbrica.
Così è nata davvero una classe operaia italiana, fatta di gente sradicata dalle proprie case e gettata in pasto a un sistema politico ed economico che riteneva naturale sfruttarla.
Non c’erano leggi precise per stabilire i diritti degli operai, per quanto riguarda ore di lavoro, condizioni di sicurezza e stipendi. E chi doveva lottare per negoziare condizioni migliori, cioè i sindacati, spesso non era capace di farlo o aveva paura di tirare troppo la corda e quindi stava al proprio posto.
Nel 1969, dunque, la situazione era davvero tesa. Le fabbriche erano tante, e piene di operai arrabbiati e stanchi, ma soprattutto disillusi della capacità dei sindacati di fare da intermediario per un cambiamento.
Così, ispirati da quello che avevano fatto gli studenti, hanno deciso di iniziare la protesta. Dura, lunga, senza compromessi.
Comincia così l’autunno caldo.
Per una casualità della storia, nel 1969 arriva la scadenza di molti contratti collettivi del settore industriale. Sono quei contratti, che definiscono le regole standard con cui si assumono i lavoratori in vari settori e che quindi riguardano migliaia e migliaia di operai.
La fine dei contratti significa che altri andranno firmati, e prima di firmarli magari ci sarà spazio per negoziare qualcosa. La fiducia degli operai nei sindacati è ai minimi termini, mentre l’influenza del movimento studentesco è sempre più forte.
In fondo gli studenti del Sessantotto contestano un sistema chiuso nel quale il loro posto nel futuro è già scritto. E gli operai capiscono che è quello che successo a loro. A chi comanda, serviva che loro facessero gli operai in quelle condizioni e nessuno aveva voglia di cambiarlo.
Nessuno, tranne loro.
Nell’autunno del 1969 si creano associazioni di operai indipendenti dai sindacati tradizionali. Spesso raccolgono gli operai non specializzati, l’ultima ruota del carro, quelli snobbati anche dentro la fabbrica. Sono loro i più arrabbiati, i più ideologizzati, i più pronti a usare anche la violenza se necessario.
Come gli studenti avevano occupato le università, loro occupano le fabbriche. Organizzano assemblee dove tutti hanno diritto di parola e tutti dicono la propria. Rabbiosi, a volte confusi, ma comunque con tanta voglia di partecipare e di lottare.
Il mondo fuori dalle fabbriche non ci capisce niente. In particolare la politica.
All’epoca, il presidente del consiglio è ovviamente un rappresentante democristiano, Mariano Rumor. Sostenuto da una maggioranza che potremmo definire di centro-sinistra, perché oltre alla DC ci sono anche i socialisti e i repubblicani. L’onda di proteste colpisce in faccia il governo e anche il Partito Comunista all’opposizione. Il sistema politico venuto fuori dalla fine della guerra, con i centristi moderati sempre al governo e i comunisti sempre all’opposizione, ormai è vecchio, bloccato, non soddisfa più le masse popolari. Andava bene per l’Italia contadina uscita dalla guerra, non va più bene adesso.
Anche i governi di centro-sinistra, che hanno l’intenzione sincera di migliorare le condizioni della classe lavoratrice, non sono credibili per gli operai che protestano.
Dentro le fabbriche c’è la convinzione ormai forte che le soluzioni moderate sono solo un contentino. Dare agli operai qualcosa per farli stare buoni, ma senza cambiare mai davvero i rapporti di forza.
Nascono movimenti radicali di sinistra, ispirati a una lettura autonoma di Marx, ma anche all’esperienza di Mao in Cina al mito di Che Guevara in Sud America. Movimenti che contestano i partiti di sinistra tradizionali, i socialisti e i comunisti, perché hanno tradito la causa della rivoluzione e pensano soltanto a mantenere lo status quo.
Le manifestazioni e gli scioperi fanno paura per la loro aggressività e radicalità. Con richieste che nessuno sembra in grado di controllare.
In realtà al governo, in ritardo e in parte, capiscono l’antifona. Bisogna fare qualcosa. Iniziano i colloqui con i sindacati e i lavori per scrivere leggi chiare e forti per i diritti dei lavoratori. Ne viene fuori un insieme di leggi che esiste ancora oggi e che prende il nome di Statuto dei lavoratori.
È una grande vittoria. Certo, non è tutto quello che volevano gli operai, ma è comunque molto.
Potrebbe essere l’inizio di una storia nuova. Solo che all’improvviso arriva Piazza Fontana.
Ed eccoci che torniamo al momento da cui siamo partiti.
Il 12 dicembre del 1969, quando l’autunno caldo delle proteste era finito da poco, esplode la bomba a Piazza Fontana. Un’altra viene trovata, inesplosa, in un’altra banca nel centro di Milano. Altre tre, un paio d’ore dopo, esplodono a Roma provocando in tutto 16 feriti.
Ma che sta succedendo?
È un attacco verso lo Stato. Ma da parte di chi?
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La prima ipotesi sembra facile. Quelli che odiano lo Stato sono gli anarchici, e in Italia il movimento anarchico è storicamente piuttosto forte.
La polizia, subito dopo la strage, organizza una retata in vari circoli anarchici di Milano e arresta decine di persone.
Uno di loro è un ferroviere. Si chiama Giuseppe Pinelli ed è uno dei protagonisti involontari di questa storia.
La polizia interroga Pinelli per 48 ore di seguito, in una stanza della questura di Milano, al quarto piano. Il terzo giorno di interrogatori, il 15 dicembre, Pinelli cade dalla finestra e muore schiantandosi al suolo dopo un volo di 12 metri.
La polizia dirà che è stato un suicidio, la mossa di un uomo con le spalle al muro, ma anarchici e estrema sinistra non ci crederanno mai. E qualcuno deciderà di vendicare la morte dell’anarchico Pinelli. Ma di questo parleremo un’altra volta.
Anche perché, nel frattempo, le indagini vanno avanti. Non ci sono prove a carico degli anarchici, ma invece si fa strada sempre più viva una teoria completamente diversa. Sono stati i neofascisti.
Dalla morte di Mussolini, nel 1945, il partito fascista è illegale e la costituzione si dichiara orgogliosamente antifascista. Ma di certo non va bene a tutti in Italia. Ci sono i nostalgici del fascismo e del Duce e ci sono tanti giovani che Mussolini non l’hanno mai visto se non in fotografia, ma che credono che la cosa giusta per l’Italia sia una dittatura di destra.
Sono in particolare giovani spaventati, e un po’ disgustati, dalle proteste del Sessantotto. E che, di fronte a quell’ondata rivoluzionaria che parla di progresso e libertà, decidono di reagire. Parlando di ordine, patria e tradizione. E rievocando il fascismo.
La polizia li conosce già, perché già da qualche tempo i neofascisti progettano, o sognano, un colpo di Stato. Come quello che due anni prima ha portato al potere una dittatura militare fascista in Grecia.
Le indagini non sono facili. Qualcuno, qualcuno di importante dentro lo Stato, prova a depistare la polizia e a nascondere la verità. Alla fine però si arriva a due nomi ben precisi. Franco Freda e Giovanni Ventura. Neofascisti veneti. Oggi lo sappiamo quasi con certezza. Sono stati loro a organizzare l’attentato.
Chi ha effettivamente portato la bomba dentro la banca di Piazza Fontana, quello non lo sappiamo. E probabilmente non lo sapremo mai. Come detto, le responsabilità sono di Freda e Ventura e del neofascismo italiano, ma un aiuto da qualcuno dentro lo Stato italiano è arrivato e qualche segreto è destinato a rimanere tale per sempre.
Sappiamo chi ha organizzato l’attentato di Piazza Fontana. Ma perché lo hanno fatto?
Ricordiamo che erano gli anni ’60, in piena guerra fredda. Esistevano Stati costituzionalmente comunisti, a due passi dall’Italia. Come per esempio la Jugoslavia.
Il timore di una rivoluzione comunista in Italia era forte, e l’energia delle proteste studentesche e operaie faceva paura.
Negli ambienti di destra, erano tutti sicuri di una cosa. Per garantire la tranquillità e scongiurare una rivoluzione comunista c’è bisogno di un governo forte, magari a guida militare, che mantenga l’ordine e la sicurezza e che impedisca ai comunisti di manifestare, occupare le fabbriche e magari prendere il potere.
I giovani neofascisti ci credevano sinceramente, ma sapevano anche che non sarebbe stato facile fare accettare all’Italia del dopoguerra un governo del genere. A meno che… A meno che le persone non avessero davvero paura. E siccome occupazioni di fabbriche e università non facevano abbastanza paura, serviva qualcosa di più.
Per esempio, delle bombe. Come quella di Piazza Fontana.
Gli storici l’hanno chiamata Strategia della tensione. L’idea di organizzare attentati orribili per dare la colpa agli anarchici e potere organizzare una dittatura per difendersi da quegli attentati. Un piano contorto, diabolico.
E che naturalmente non ha funzionato. In Italia non c’è stato un colpo di Stato né una dittatura militare, per fortuna.
Quello che i neofascisti forse non avevano previsto o che avevano preso sotto gamba era la reazione dei militanti di sinistra.
Operai e studenti sono sicuri di una cosa. Chi ha fatto scoppiare la bomba di Piazza Fontana lo ha fatto per fermare le loro lotte.
E se i neofascisti vogliono la guerra, avranno la guerra.
Da Piazza Fontana, nasce l’idea che i diritti degli operai non si possono ottenere più soltanto con le manifestazioni. Serve la lotta armata.
Un’idea che bagnerà di sangue le strade di tutta Italia per un decennio.
Inizieranno gli anni di piombo. Piombo come il materiale con cui si fanno i proiettili.
La strage di Piazza Fontana, con i suoi morti, i suoi feriti e i suoi misteri è soltanto l’inizio.
Ma di questo parleremo un’altra volta.
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