#90 – Il Sessantotto, l’anno della rivolta
Trascrizione dal podcast Salvatore racconta, episodio pubblicato il 27 novembre 2022.
Distribuito con licenza Creative Commons CC-BY 4.0 non commerciale.
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Ci sono anni nella storia umana che, anche sono a nominarli, sono molto evocativi. Non sono semplici numeri, ma veri e propri simboli.
Per esempio? L’anno zero. Quello da cui, nel mondo occidentale, facciamo partire il calendario. Segnando, con la nascita di Cristo, l’inizio di una nuova storia.
Oppure il 1492. Quando le tre caravelle guidate da Cristoforo Colombo con l’obiettivo di arrivare in India, in realtà raggiungono un continente sconosciuto, quello che poi sarà l’America.
O ancora il 1789, quando i francesi decidono che ne hanno abbastanza della monarchia e fanno la rivoluzione.
Sono tutti eventi locali, anche se poi hanno influito sul destino dell’intera umanità.
E poi c’è stato un anno che, invece, ha riguardato tantissimi posti nel mondo. Con eventi diversi, persone diverse e obiettivi diversi, ma unito da un significato profondo di cambiamento e di ribellione.
Sto parlando del 1968.
Negli Stati Uniti, il Sessantotto ha portato alla ribalta la cultura hippy, il pacifismo e il tema della liberazione sessuale.
In Francia, è stato l’anno delle proteste universitarie, con gli studenti che hanno addirittura costruito barricate nel centro di Parigi.
In Europa centro-orientale, è stato l’anno della primavera di Praga, quando la Cecoslovacchia ha sognato un po’ di libertà dal controllo sovietico e poi ha dovuto subire la repressione arrivata da Mosca.
E in Italia? In un certo senso, un po’ di tutto questo.
C’è stata la rivolta studentesca, ci sono stati i primi segnali del femminismo, c’è stata la repressione della polizia e c’è stata anche la messa in discussione dell’autorità.
Il Sessantotto ha cambiato tutto, ha ribaltato la società. Nulla dopo è stato come prima. Molto di come siamo oggi, passa da lì. E quindi te lo racconto. In italiano semplice, ma non banale.
Come abbiamo raccontato nell’episodio 85, negli anni ’60 l’Italia era già sensibilmente diversa da quella che era uscita dalla guerra.
Anche il paesaggio era cambiato radicalmente.
Con l’arrivo della pace e gli aiuti americani, erano nati soprattutto al nord, moltissimi cantieri e moltissime fabbriche e cantieri. C’era bisogno di manodopera che arrivava soprattutto dalla campagna. Intere famiglie si trasferivano in città, dove li aspettava un lavoro duro, ma anche uno stipendio fisso ogni mese. Una stabilità che la campagna non poteva assicurare.
È il boom economico di cui abbiamo già parlato. Che ha portato benessere a molte famiglie. Anche se molte altre invece sono rimaste povere. Al massimo, da poveri di campagna sono diventati poveri di città.
Non è un cambiamento da poco. Soprattutto per i più giovani. Nati alla fine della guerra, o proprio dopo la guerra, e che quindi hanno conosciuto solo un mondo che va avanti e diventa più ricco.
Rispetto ai genitori, spesso hanno concezioni diverse, e prospettive diverse. Per loro la vita non deve essere solo fatica e sacrificio, ma vogliono qualcosa di più. Per esempio, vogliono studiare. Vogliono andare all’università.
E già, l’università. Diventare “dottori” come si dice nel linguaggio colloquiale italiano. L’ambizione dei ragazzi degli anni ’60 e anche dei loro genitori. Una famosa canzone dell’epoca dice: “anche l’operaio vuole il figlio dottore”.
Perché avere un’istruzione superiore è un modo per avere un lavoro migliore e dunque una vita migliore, con più soddisfazioni e meno fatica. Per molte persone, è un vero obiettivo di rivalsa sociale.
In quegli anni, tuttavia, non era facile. Innanzitutto, per ragioni economiche. Studiare significava non dover lavorare e quindi avere una famiglia in grado di mantenerti agli studi.
Per questo motivo, fino ad allora, le università erano quasi sempre frequentate dai cosiddetti figli di papà, ragazzi benestanti che un giorno sarebbero diventati professori, medici, avvocati, dirigenti. Mentre i figli degli operai, che non potevano permettersi di non lavorare, sarebbero diventati a loro volta operai. Insomma, una società bloccata.
Verso la fine degli anni ’60, questo sistema inizia a scricchiolare. La riforma della scuola rende più facile l’accesso all’università e il numero degli studenti inizia a crescere. Cresce tanto e in modo inaspettato, le università non sono pronte. Banalmente, non c’è posto per tutta quella gente.
La maggior parte degli studenti continua a essere di estrazione borghese, ma arrivano anche i primi ragazzi e ragazze che vengono da famiglie proletarie e che, grazie al loro distacco, vedono problemi che i loro colleghi di famiglie ricche non vedevano.
Per esempio l’arroganza dei professori, chiamati con disprezzo baroni, perché erano pieni di privilegi, trattavano male gli studenti e spesso nemmeno si presentavano a lezione. Oppure il problema dei costi per chi voleva studiare. Le tasse universitarie, i libri, i mezzi pubblici, le stanze da affittare.
Le prime proteste del Sessantotto iniziano prima del Sessantotto, già dal 1966, e nascono proprio da questi problemi. Soprattutto nei grandi atenei come la Cattolica di Milano o La Sapienza di Roma.
Il primo vero focolaio di rivolta studentesca ideologica parte da quella che oggi è una città tranquillissima e periferica, ma che nel ’68 è stata la capitale della rivoluzione.
Trento.
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Dal 1962, l’Università di Trento era la sede di un esperimento. La nascita di un corso di studi in sociologia. Oggi ci sembra scontato pensare che ogni università che si rispetti ne abbia uno, ma negli anni ’60 questa disciplina era ancora abbastanza giovane, e in Italia si poteva studiare solo a Trento.
Per una certa ironia della sorte, a promuovere quest’idea erano stati gli esponenti della Democrazia Cristiana, il partito politico che in quegli anni governava in Italia quasi senza rivali. E soprattutto, il partito che dei cambiamenti sociali italiani ci stava capendo poco o niente.
A Trento, si incontrano molti giovani di origine borghese e altri di origine popolare, tutti attratti da quella nuova disciplina. E lì, studiando la società in modo scientifico, capiscono qualcosa che la classe politica faticava a comprendere. Anche se studiavano insieme e avrebbero ottenuto gli stessi titoli, borghesi e proletari sarebbero usciti dall’università in modi diversi. La società italiana era bloccata, nessuno in politica voleva o poteva cambiare lo status quo. Che senso aveva studiare se poi comunque i figli dei padroni sarebbero diventati nuovi padroni e i figli dei proletari sarebbero rimasti proletari? E inoltre, aveva senso accettare in toto la visione del mondo dei loro genitori? La generazione che aveva vissuto la guerra era davvero capace di offrire a loro, giovani, gli strumenti per capire quel mondo ormai così diverso?
Le risposte a queste domande sono tutte negative. E così gli studenti di sociologia di Trento decidono che l’unica soluzione è fare le cose a modo loro.
Occupano l’università. Prendono il controllo delle aule. Organizzano convegni, assemblee e corsi alternativi. Vogliamo studiare la società, dicono, ma a modo nostro.
Da Trento, l’esempio si espande velocemente ad altre città. Soprattutto all’inizio, il movimento di protesta studentesca è molto trasversale. Riguarda ragazzi e ragazze consapevoli di appartenere a classi sociali diverse, ma anche consapevoli del fatto di avere qualcosa come generazione.
Il mondo in cui sono nati e in cui stanno vivendo è molto diverso da quello dei loro genitori. Accettare la loro autorità non ha senso, perché fonda le sue basi in una società che non esiste più.
Gli studenti di sociologia hanno colto nel segno. C’è un problema di distacco tra le generazioni. Che diventa evidente quando la protesta esce dagli atenei e incontra il resto della società.
Ispirati da quello che arriva dagli Stati Uniti, gli studenti organizzano dibattiti sulla guerra in Vietnam, sulla rivoluzione culturale in Cina, sulla libertà sessuale. I ragazzi iniziano a portare i capelli lunghi e le ragazze a fumare e a indossare i pantaloni. La società italiana, soprattutto in provincia, non è pronta a tutto questo.
A Trento arrivano anche i primi interventi della polizia. Il fatto è che gli studenti sono davvero tanti, e la città è piccola. L’arrivo di mille o duemila ragazzi ogni anno può davvero cambiare il volto di una comunità. E la brava gente spaventata da quei capelloni strani che può fare? Chiama la polizia, naturalmente.
Comincia a essere sempre più chiaro che la protesta non è solo per l’università, ma è contro chi non capisce i cambiamenti e cerca di fermarli. Lo scontro è inevitabile.
Ben presto, il cuore della rivolta si sposta da Trento verso le città più grandi.
All’inizio del 1968, anche all’Università di Roma c’erano state varie occupazioni con gli studenti che contestavano in modo radicale tutto il sistema universitario. Il rettore romano aveva chiamato la polizia per spaventare gli occupanti e costringerli a tornare a casa.
Era questione di tempo, ma lo scontro era nell’aria.
Il primo marzo del 1968, gli studenti di architettura decidono di rioccupare la loro facoltà, che si trova nell’elegante zona di Valle Giulia. La polizia li ha appena cacciati, ma loro ci vogliono riprovare. E molti altri studenti di altre facoltà si uniscono a loro.
Si trovano di fronte centinaia di poliziotti che li aspettano. Ma questa volta i ragazzi non si fanno intimidire e di fronte ai manganelli non scappano, ma avanzano.
A Valle Giulia va in scena una vera e propria battaglia. Con centinaia di feriti. È uno scontro feroce, ormai è chiaro. Non è più un problema solo dell’università, ma di tutta l’Italia.
Il dibattito è vivo, ma anche confuso. Ovviamente sugli studenti piovono critiche soprattutto da destra, ma anche -un po’ a sorpresa- da sinistra.
È chiaro che i grandi partiti politici, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista, sono inadeguati in questa fase. Nonostante siano diversissimi tra loro, per gli studenti sono come due facce della stessa medaglia, l’espressione della vecchia generazione incapace di ascoltare e che vuole solo comandare.
La democrazia cristiana è legata alla chiesa cattolica, un istituto conservatore e paternalista per sua stessa natura. Ma anche il partito comunista, agli occhi dei giovani, è fatto della stessa pasta. È un partito di uomini con i capelli bianchi e la cravatta, che hanno una fede quasi religiosa nel modello sovietico che resiste anche dopo la repressione nel sangue della primavera di Praga.
Ma torniamo a noi. La politica non si interessa agli studenti e non li capisce. Loro invece si interessano molto alla politica. Anzi, arrivano a dire che tutto è politica e tutto può e deve essere messo in discussione.
Questo perché la maggior parte dei sessantottini ha visioni progressiste, laiche, a volte femministe. Vogliono cambiare il mondo. Eppure, nelle università ci sono ancora solidi gruppi di figli di buona famiglia che non hanno voglia che il mondo cambi. Per loro va bene così com’è, con quelli che comandano ben divisi da quelli che sono comandati. Alle assemblee universitarie, così, nascono gruppi di estrema sinistra, ma anche di estrema destra. Uniti dalla comune antipatia verso i partiti tradizionali, ma divisi da tutto il resto e ferocemente nemici tra loro.
Il Sessantotto finisce il 31 dicembre di quell’anno, ma solo secondo il calendario. L’anno dopo, la politica verrà incontro agli studenti con la riforma Codignola che renderà davvero di massa l’università italiana. Con borse di studio, studentati e altri servizi per permettere a tutti, ma davvero a tutti stavolta, di potere studiare.
Non basta questo a fermare la rivolta, però. Anzi, le proteste studentesche sono solo servite ad aprire il vaso di Pandora dei problemi dell’Italia.
Le proteste giovanili che la politica aveva un po’ snobbato, pensando che fossero capricci o ragazzate, in realtà erano il sintomo di una rabbia sociale fortissima.
La rivolta passerà dalle università alle fabbriche. Creando speranze e paure. Soprattutto paure. Manderà per sempre in soffitta l’Italia della dolce vita, portando l’Italia degli anni di piombo. Fatta di pistole, bombe e terrore.
Di questo però, parleremo un’altra volta.
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