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#9 – Adriano Panatta. Per il tennis e per la libertà

Trascrizione dal podcast Salvatore racconta, episodio pubblicato il 1 maggio 2021.

Distribuito con licenza Creative Commons CC-BY 4.0 non commerciale.

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Adriano Panatta Salvatore racconta Italiano per stranieri

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Provate a chiudere gli occhi

E immaginare Roma negli anni Cinquanta.

Che cosa vedete?

Probabilmente, uomini eleganti che portano il cappello.

Belle ragazze in vestitini a fiori.

Magari una coppia che vuole imitare Audrey Hepburn e Gregory Peck, in giro con la Vespa per le strade del centro. Come in Vacanze Romane.

Tutto molto bello.

Quasi tutto molto vero.

Andiamo però un po’ in periferia, a guardare cosa succede lì.

Nel quartiere Parioli, per esempio, che oggi come allora è una zona molto elegante. E oggi come allora c’è un circolo di tennis.

In un giorno qualsiasi di fine anni Cinquanta, su un lato di uno dei campi c’è un uomo seduto. Saluta tutti, conosce tutti.  Mentre fuma una sigaretta, guarda un bambino di sei anni che colpisce la pallina con una racchetta più grande di lui.

L’uomo con la sigaretta si chiama Ascenzio Panatta. È il custode del Tennis Club Parioli, e tutti i soci gli vogliono bene.

Il bambino è suo figlio. Si chiama Adriano. Adesso è solo un bambino con una racchetta enorme in mano.

Fra altri vent’anni diventerà protagonista di un pezzo di storia italiana degli anni Settanta e il tennista italiano più forte di tutti i tempi.

Ancora vent’anni e tutti in Italia sapranno chi è Adriano Panatta.

Negli anni Cinquanta, il tennis è uno sport un po’ elitario. Per ricchi.

Quando Adriano Panatta è ancora un bambino, non è ancora uno sport professionistico.

Per la verità, i professionisti esistono. Ma sono considerati tennisti di seconda categoria. Per alcuni, sono veri e propri fenomeni da baraccone.

Dilettante nell’italiano contemporaneo è una parola negativa, indica spesso qualcuno che non è bravo nel suo lavoro. Professionista invece è sinonimo di grande qualità e serietà.

Nel linguaggio dello sport del passato, invece, era tutto diverso. Secondo la filosofia del barone De Coubertin, l’inventore delle Olimpiadi moderne, il vero sportivo è il dilettante. Ovvero chi fa sport per diletto, per passione. Il professionista, che lo fa per soldi, non è un vero sportivo.

Nel tennis questa concezione è durata a lungo. I dilettanti, cioè i veri sportivi, potevano partecipare ai tornei antichi e prestigiosi. Come Wimbledon, o il Roland Garros. I professionisti facevano tornei senza valore sportivo, per il pubblico e per i soldi.

Nel 1968 tutto cambia. Inizia l’era Open. È la rivoluzione del tennis. I grandi tornei finalmente aprono ai professionisti.

E tra i professionisti c’è anche quel bambino romano degli anni Cinquanta. Ora è un ragazzo di diciannove anni, tennista elegante e dal fascino misterioso. Adriano Panatta inizia presto ad avere molti tifosi e anche molte ammiratrici.

È chiaro da subito che, a livello italiano, il giovane Panatta è già il più forte di tutti.

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Lo dimostra a Roma, quando vince giovanissimo la finale dei campionati italiani contro Nicola Pietrangeli. Una leggenda del tennis italiano, due volte campione al Roland Garros, nove anni prima.

La vittoria di Panatta è un passaggio generazionale chiaro. In quel momento Pietrangeli ha 37 anni, è vicino al ritiro. Panatta ne ha 20, pronto a spiccare il volo. Il campione anziano lascia il posto al campione giovane.

Così, lentamente, ma senza sosta, la carriera internazionale di Panatta diventa sempre più importante. Vince alcuni tornei e entra in top-10.

All’inizio degli anni Settanta, Panatta è un tennista talentuoso, conosciuto e molto affascinante.

Porta i capelli lunghi con un ciuffo davanti, alla moda dei Beatles. È sempre abbronzato e sorride poco, quindi ha il fascino del ragazzo misterioso. In quel periodo ha una relazione con la famosa cantante italiana Loredana Bertè. I paparazzi lo scoprono, lo seguono, li fotografano, sono la coppia del momento.

Chi lo vede giocare, dice chiaramente che Adriano Panatta è un campione in erba. E lui dimostrerà presto che avevano ragione: nella magica stagione 1976.

I primi tornei dell’anno non sono eccezionali. Panatta perde molte partite, anche contro avversari più deboli di lui.

A maggio però ci sono gli Internazionali d’Italia, a Roma. È il torneo più importante che si gioca in Italia e gli appassionati tifano tutti per Panatta. Lui inizia faticosamente, ma arriva in finale. Contro di lui per il titolo c’è l’argentino Guillermo Vilas.

Vilas è un tipico tennista sudamericano di quella generazione. Sui campi in terra rossa, come quello di Roma, è quasi imbattibile.

La finale Panatta-Vilas è una battaglia che dura quattro set. Alla fine, Panatta vince. Il pubblico lo adora e grida il suo nome.

Lui a questo punto è carico di entusiasmo. Un entusiasmo prezioso perché, poche settimane dopo vola a Parigi, per il Roland Garros. Uno dei tornei più importanti del mondo.

Per due anni di fila, sui campi di Parigi il campione è stato il tennista svedese, Bjorn Borg. Ancora oggi una leggenda del tennis mondiale.

Borg è diverso da tutti gli altri tennisti della sua generazione. È freddo come il ghiaccio. Non parla con nessuno. Sembra una macchina. E poi gioca in modo diverso da tutti gli altri. In un certo senso, rivoluzionario.

Il suo tennis si basa sulla forza. E poi fa una cosa che all’epoca sembra quasi scandalosa.

Quando gioca il rovescio tiene la racchetta con tutte e due le mani. Oggi non c’è niente di strano. Quasi tutti i tennisti giocano il rovescio a due mani. Ma quando Borg inizia questa pratica, sembra un barbaro.

Barbaro o no, quando lo svedese arriva nel tennis, lo domina pratica da subito. E nel ’76 gioca per vincere il suo terzo Roland Garros di fila.

Solo che ai quarti di finale si trova di fronte Adriano Panatta. È un deja-vu, i due hanno giocato sempre a Parigi e sempre ai quarti tre anni prima. Borg era ancora giovane e ha perso, quasi incredibilmente, contro il tennista romano. Da quella volta, non ha più perso neanche una partita a Parigi.

Nel ’76 dunque la sfida si ripete. La macchina svedese Borg contro il passionale italiano Panatta. diventa una sfida epica.

La partita è combattuta, ma alla fine Panatta ha la meglio. Vince in quattro set. Ha battuto per la seconda volta Bjorn Borg sulla terra di Parigi. Per capirci, nessuno a parte Panatta ha mai vinto contro Borg in questo torneo, che lo svedese in carriera ha conquistato per sei volte.

Ma questa è un’altra storia. Torniamo da Panatta, che intanto vola sulle ali dell’entusiasmo. In semifinale vince contro Eddie Dibbs. E in finale incontra Harold Solomon, da Washington. La loro rivalità è forte. Si sono incontrati a Roma, ai quarti di finale, e Solomon ha abbandonato la partita protestando. Convinto che l’arbitro favorisse il tennista italiano.

L’americano a Parigi cerca vendetta, ma non la trova. Vince di nuovo Panatta.

In poche settimane magiche, Adriano Panatta ha vinto gli Internazionali di Roma e il Roland Garros. In Italia è un eroe nazionale. Anche chi non seguiva il tennis, comincia ad appassionarsi grazie a lui.

Ma non è finita qui. Il periodo d’oro di Panatta deve continuare. Con la finale di Coppa Davis.

La Coppa Davis è un torneo un po’ strano del tennis. È un torneo a squadre, per nazionali. E si gioca, o meglio, si giocava, durante tanti momenti dell’anno.

A settembre del ‘76, l’Italia è in semifinale contro l’Australia. L’Australia è una squadra durissima, ma la sfida si gioca a Roma, dove Panatta è il re. I tifosi lo adorano e lo trascinano.

Adriano è decisivo. Vince la partita di doppio, in coppia con Paolo Bertolucci, e uno dei suoi incontri in singolare. L’Italia, per la prima volta nella sua storia, giocherà la finale per vincere la Coppa Davis. Ancora non si sa contro chi.

La seconda semifinale è Cile contro Unione Sovietica. Non è una sfida normale in quel periodo storico. Da un lato c’è l’Unione Sovietica, lo stato socialista per eccellenza.

Dall’altro il Cile, che aveva un presidente socialista fino a poco tempo prima. Adesso invece ha una dittatura militare di estrema destra. Comandata da Augusto Pinochet, che odia i socialisti e i comunisti, e governa il Cile con il terrore, le torture e le uccisioni degli oppositori.

Alla fine, la sfida di Coppa Davis la vince il Cile. Perché i tennisti sovietici non partecipano. L’URSS ha deciso il boicottaggio. A Mosca dicono che il Cile è uno stato criminale e assassino, e che non si può giocare una partita di tennis contro di loro.

Quindi in finale contro l’Italia ci saranno i cileni. E potranno giocare in casa, a Santiago del Cile.

In Italia improvvisamente scoppiano le polemiche. Tutti sanno che l’Italia è in finale di Davis, con buone possibilità di vincere. Tutti sanno anche che Pinochet tortura e uccide gli oppositori.

Sui giornali e da parte di alcuni politici, soprattutto di sinistra, ci sono pressioni forti perché i tennisti italiani non vadano in Cile. Dicono che sarebbe sbagliato andare e legittimare così il colpo di stato di Pinochet. Ci sono anche manifestazioni di piazza, e i giocatori ricevono addirittura telefonate anonime di minacce.

Alla fine però, la federazione tennis decide che è un’occasione unica di vincere la coppa Davis e che la politica va in secondo piano. Tra le polemiche, i tennisti partono per Santiago.

Nella squadra che va in Cile c’è ovviamente Panatta. Insieme a Paolo Bertolucci, Corrado Barazzutti e Tonino Zugarelli. Il formato della sfida prevede cinque partite in tre giorni.

Il primo giorno due partite di singolare incrociate. Il giocatore numero 1 italiano, ovviamente Panatta, contro il numero 2 cileno, e il numero 2 italiano, Barazzutti, contro il numero 1 cileno. I due tennisti italiani vincono le loro sfide. Barazzutti fatica un po’, Panatta invece distrugge il suo avversario. Dopo il primo giorno, Italia-Cile è 2 a 0.

Il secondo giorno è prevista la sfida di doppio. In campo per l’Italia, si presentano Panatta e Bertolucci. I due tennisti italiani però hanno una sorpresa. Non indossano la maglia azzurra tradizionale, ma una maglietta rossa. Un messaggio di sostegno agli oppositori cileni. Un messaggio di sfida al dittatore Pinochet.

L’idea l’ha avuta Panatta. In modo un po’ istintivo la sera prima. L’ha detto a Bertolucci, che non era troppo convinto, ma poi ha accettato.

Perché Panatta ha fatto una cosa del genere? Perché ha rischiato una squalifica durante il momento più importante della sua carriera?

Perché nelle settimane precedenti ha sofferto molto per le critiche.

Lo hanno accusato di essere un milionario, attaccato ai soldi, e indifferente alla causa politica dei dissidenti cileni. Ma Adriano Panatta è il figlio di una famiglia semplice, e ha sempre votato a sinistra. Non è vero che è indifferente ai crimini di Pinochet.

Allo stesso tempo, però, da tennista, l’occasione di vincere la coppa Davis era unica.

E così ha deciso per la maglietta rossa. Un modo di dire: gioco per vincere, ma non dimentico i miei valori.

È un atto simbolico fortissimo, anche molto rischioso, ma vincente. Quando gli azzurri entrano in campo vestiti di rosso, lo stadio freme di nervosismo. E forse anche i giocatori cileni. Che perdono anche quella sfida. L’Italia ha già vinto tre sfide su cinque. La Coppa Davis è già sua.

Quando gli azzurri tornano in aereo a Roma, con la coppa, tutti i giornali sembrano avere dimenticato le polemiche dei giorni precedenti. Sono tutti entusiasti per la prima storica coppa Davis del tennis italiano. La prima e unica.

Panatta in quel momento è praticamente un dio. Ha vinto gli Internazionali a Roma, il Roland Garros a Parigi, ha portato la coppa Davis in Italia. E ha sfidato Pinochet a casa sua, portando davanti alle telecamere e ai fotografi di tutto il mondo il simbolo dei suoi oppositori.

Negli anni successivi, la carriera di Panatta è ancora molto importante e sfiora la leggenda. L’Italia arriva altre tre volte in finale di Coppa Davis, ma le perde tutte e tre. Contro Australia, Stati Uniti e Cecoslovacchia. Nel 1983, a 33 anni, Adriano Panatta si ritira dal tennis professionistico.

Ancora oggi è un personaggio molto famoso e riconosciuto. Porta ancora i capelli lunghi con il ciuffo da Beatles come quando era giovane e continua a sorridere poco, preferendo un’aria malinconica unita al solito senso dell’umorismo dolceamaro tipicamente romano.

Se volete saperne di più su di lui, e in particolare sulla Davis in Cile, vi consiglio il film documentario Magliette rosse. Non sarà difficile per voi capire a cosa si riferisce.

 

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