#89 – Gli anni d’oro della pallavolo italiana
Trascrizione dal podcast Salvatore racconta, episodio pubblicato il 19 novembre 2022.
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Quando suona la campanella che segna l’inizio dell’ora di educazione fisica a scuola, tutti i ragazzi e tutte le ragazze d’Italia per prima cosa guardano fuori dalla finestra.
Se c’è il sole, o perlomeno non piove, forse c’è la speranza di fare un’ora di attività all’aperto. Magari un po’ di atletica. Scatti, lanci, salti. O forse addirittura il sogno proibito soprattutto dei maschi, il prof di educazione fisica che li aspetta con un pallone e dice: ok, oggi partitella di calcio.
Se il sole non c’è, però, tutti in palestra. A fare esercizi di riscaldamento, di solito noiosissimi, e poi la passione misteriosa di tutti gli insegnanti di educazione fisica d’Italia. Giochiamo a pallavolo. Ovvero, il volley.
Anche nelle palestre più scalcagnate, una rete da pallavolo c’è sempre. In alcune palestre ci sono anche i canestri da basket, ma sono un lusso, e poi il basket a scuola è incontrollabile. Troppo veloce, palla troppo pesante. Ogni volta qualcuno si fa male, si rompono occhiali e orologi, a volte anche nasi e denti. Non vale la pena.
Meglio la pallavolo. Anche perché è molto didattica. Uno sport davvero di squadra, dove tutti devono funzionare come un ingranaggio perfetto per ottenere il risultato sperato.
Insomma, sono moltissime le persone in Italia che almeno una volta nella vita hanno provato a servire, alzare o schiacciare a rete. Anche le persone completamente negate per lo sport e che hanno odiato ogni singolo minuto di educazione fisica a scuola sanno cosa vuol dire.
La pallavolo fa parte di tutti noi, insomma.
Anche a livello professionistico, non ha certo i numeri del calcio per quanto riguarda praticanti e appassionati, ma comunque la seguono in molti.
In particolare nell’ultimo anno, visto che sia la nazionale maschile che quella femminile hanno vinto gli europei del 2021 e i ragazzi poi hanno fatto il bis vincendo anche i mondiali pochi mesi fa.
Un momento magico per la pallavolo italiana che a molti ricorda quello di una trentina di anni fa circa. Quando la nazionale italiana maschile era formata da una generazione di fenomeni che ha dominato questo sport partendo quasi dal nulla e arrivando a sfiorare il cielo.
Negli anni 80, quando inizia questa storia, l’Italia della pallavolo è una squadra paradossale, fatta di giocatori bravi e talentuosi ma poco ambiziosa e poco organizzata. Nella migliore tradizione italiana del dopoguerra, gli azzurri si accontentano di quello che hanno senza esagerare, tirano a campare.
La scusa perfetta è che gli avversari sono semplicemente troppo forti. Come abbiamo detto prima, la pallavolo è uno sport di grande disciplina e ordine, e in quel periodo ci sono ancora al mondo i Paesi socialisti che in questo sono i migliori del mondo. I polacchi, i bulgari, ma soprattutto i sovietici sembrano imbattibili.
La cosa che sembra paradossale è che il campionato italiano è di livello altissimo e i campioni ci sono. Il problema sembra tutto nella testa. Il fatalismo di chi dice: tanto comunque alla fine perdiamo, gli altri sono più forti.
E per risolvere un problema del genere non serve cambiare i giocatori, serve cambiare mentalità. E per farlo, ci vuole l’aiuto della persona giusta al momento giusto nel posto giusto.
Quella persona per la pallavolo italiana è un allenatore che viene da La Plata, in Argentina, e si chiama Julio Velasco.
Velasco è uno dalla storia sportiva strana. Da ragazzo aveva giocato un po’ a pallavolo, ma mai niente di serio. All’università studiava filosofia perché voleva diventare professore del liceo, ed era anche molto attivo politicamente. Un giovane di sinistra, un militante comunista. Una cosa che in quegli anni in Argentina poteva finire veramente male. Quando il regime militare ha arrestato e fatto sparire suo fratello per due mesi, Julio ha capito che era meglio tenere un profilo basso. Ha lasciato l’università, ha iniziato a fare qualche lavoretto e quasi per caso anche ad allenare squadre di pallavolo.
Ma si vede che quel ruolo gli calza a pennello. In Argentina vince tre campionati di fila e si conquista il posto di vice allenatore della nazionale con cui nel 1982 vince la medaglia di bronzo ai mondiali. È così che attira l’attenzione di una squadra di Jesi, nelle Marche, una squadra giovane e ambiziosa. Velasco accetta, si trasferisce in Italia e dopo tre anni è già nell’olimpo della pallavolo italiana. Modena.
La squadra emiliana è già una delle più forti d’Italia. Con lui inizia una striscia vincente che in quattro anni lo porta a vincere quattro campionati e tre coppe Italia di fila e ad arrivare per tre volte arriva in finale di Coppa dei campioni perdendo però tutte e tre le volte contro i mostri sacri della CSKA Mosca.
Nel frattempo, è il 1988, alle Olimpiadi di Seoul per gli azzurri è arrivata l’ennesimo evento senza infamia e senza lode. Nono posto e l’idea che il destino dell’Italia sia questo.
Allora alla federazione decidono di provare una cosa. Lo zoccolo duro della nazionale è fatto di giocatori del Modena e dunque perché non chiamare l’allenatore del Modena a tentare il miracolo. A trasformare la nazionale azzurra in una vera squadra.
Velasco è ambizioso, accetta la sfida e comincia la sua avventura da commissario tecnico della nazionale.
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Quando Velasco comincia a lavorare con gli azzurri, capisce con un colpo d’occhio che il problema è più mentale che tecnico. I giocatori sono forti, alcuni li conosce benissimo perché giocano nel suo Modena. Quello che gli manca è l’ordine, il senso di essere squadra e la capacità di prendersi della responsabilità. L’avversario più forte degli azzurri è la cultura dell’alibi. In gergo giuridico, l’alibi è la prova con cui una persona accusata di un crimine dimostra di essere innocente perché al momento del crimine era da un’altra parte. Questa parola è entrata nell’italiano di ogni giorno come sinonimo di scusa o giustificazione.
Gli azzurri della pallavolo prima di Velasco trovavano un alibi per tutto. L’errore? È colpa di un compagno o forse del tempo, dell’arbitro, del destino. Uno scaricabarile infinito.
Il compito dell’argentino è ribaltare questo sistema, unire la squadra, trovare motivazioni. I suoi metodi sono un po’ estremi all’inizio, vagamente militari e allo stesso tempo estremamente moderni. Video, statistiche, schemi. Velasco sembra un pazzo, un maniaco, eppure i risultati arrivano subito.
Agli europei del 1989, nessuno scommetterebbe sull’Italia. Nemmeno l’Italia. Gli azzurri però fanno un cammino incredibilmente solido e arrivano addirittura in finale. Una finale a sorpresa anche perché dall’altro lato della rete tutti si aspettano l’Unione Sovietica e invece c’è la Svezia che a sorpresa ha eliminato i sovietici in semifinale.
Forse contro l’Unione Sovietica avremmo visto la vecchia Italietta fatalista che si convince di non poter vincere e quindi perde. Contro la Svezia invece gli azzurri sono inesorabili. Vincono per 3 set a 1 e sono campioni d’Europa.
È un risultato inatteso e straordinario che accende i riflettori sulla pallavolo italiana. Nel 1990 ci sono i mondiali di calcio e sono addirittura in Italia. Basterebbe a concentrare l’attenzione sportiva tutta sul calcio. Ma l’estate italiana del calcio finisce male, in semifinale contro l’Argentina, e in autunno tutte le attenzioni tornano sugli azzurri di pallavolo che volano in Brasile per i mondiali, e ci arrivano da favoriti.
È una pressione tutta nuova per l’Italia che durante la stagione ha vinto partite importanti, anche contro l’Unione Sovietica e ora non ci sono più avversari che sembrano imbattibili. Ai mondiali però c’è Cuba, una squadra anarchica e capricciosa, ma fatta di giganti fortissimi. Azzurri e cubani si incontrano ai gironi e la squadra caraibica fa a fette l’Italia. Ma è una di quelle sconfitte che fanno bene, gli uomini di Velasco tornano con i piedi per terra e da lì alla fine dominano il torneo. In finale è di nuovo Italia-Cuba, ma stavolta gli azzurri sanno cosa fare.
Tre set a uno come agli europei. E come agli europei, è medaglia d’oro.
In dodici mesi Velasco ha portato questa squadra di cenerentole sul tetto d’Europa e poi sul tetto del mondo.
Manca solo una cosa, la ciliegina sulla torta, l’Olimpiade.
Per tutti gli sport, tranne che forse per il calcio, le Olimpiadi sono il punto massimo da raggiungere. Velasco lo sa bene, per la sua squadra non basta avere vinto europei e mondiali se non si mette al collo la medaglia a cinque cerchi.
Nel 1992 l’occasione c’è, a Barcellona. Tra i rivali dell’Italia per l’oro olimpico nella pallavolo c’è Cuba e anche la CSI, la comunità degli stati indipendenti, quello che è rimasto dopo il crollo dell’Unione Sovietica.
Secondo i pronostici, saranno proprio loro a contendere la vittoria finale all’Italia di Velasco.
Ma nessuno ha fatto i conti con la nazionale dei Paesi Bassi, giovane e ambiziosa come l’Italia. Gli olandesi e gli azzurri si trovano di fronte ai quarti di finale e l’Italia in quell’occasione va in tilt. Confusa, poco organizzata, sembra quasi la vecchia Italia di prima di Velasco.
La partita arriva al quinto set e alla fine vincono gli olandesi. Per un punto, l’Italia dice addio alle Olimpiadi di Barcellona.
L’oro sarà del Brasile, l’argento proprio dei Paesi Bassi e il bronzo degli Stati Uniti. All’Italia, solo l’amaro in bocca di quello che poteva essere e che non è stato.
Velasco però non è uno che si piange addosso. Anzi, si rimbocca le maniche e pensa già alle prossime Olimpiadi, quelle del 1996 ad Atlanta, negli Stati Uniti.
Per la verità, l’allenatore argentino dopo Barcellona ha tentennato un po’. Continuare o non continuare? Cosa si può ottenere ancora da questo gruppo. Alla fine, la sua fame di vittoria è più forte dei dubbi e Velasco rinnova il contratto con la federazione. Guiderà ancora l’Italia.
Capisce che servono freschezza e motivazione, quindi non ha paura di lasciare a casa alcuni uomini simbolo del triennio precedente e che forse hanno la pancia piena. Invece, preferisce chiamare invece giovani con tanta voglia di vincere. E ancora una volta, ha ragione.
Tra il 1993 e il 1995, l’Italia della pallavolo vince praticamente tutto. Gli europei del 93, i mondiali del 94 e gli europei successivi del 95.
In finale, tre volte su tre, ci sono sempre gli olandesi, quelli che avevano tolto a Velasco e agli azzurri il sogno olimpico a Barcellona.
Barcellona però è già lontana. E Atlanta è vicina. La città americana è pronta a ospitare le olimpiadi del 1996.
Gli azzurri ci sono. Sono forti, sicuri di sé e li guida un allenatore-filosofo dalle idee chiare e dal carisma irresistibile.
Ora più che mai, l’oro olimpico è letteralmente a un passo.
Eppure non c’è sfida più difficile di quella in cui sei obbligato a vincere. Gli azzurri arrivano in finale ad Atlanta e lì ad aspettarli ci sono gli eterni rivali, gli olandesi.
Chi è più nervoso? I ragazzi di Velasco che vogliono coronare un periodo epico o quelli con le maglie arancioni che sperano finalmente di avere la rivincita sui loro nemici storici?
Gli olandesi sembrano più leggeri. Gli azzurri invece sono nervosi, forse anche Velasco per una volta è un po’ confuso, la partita arriva al tie-break, di nuovo. E su un errore azzurro la vittoria finale va ai Paesi Bassi. Per l’Italia, di nuovo, alle Olimpiadi è solo un argento.
Velasco stavolta dice basta. Sa che più di questo non può fare. Ha spremuto al massimo le energie fisiche e psichiche dei migliori giocatori italiani della loro generazione, e ha spremuto anche le sue.
Ha fatto qualcosa di stupefacente per cui tutta l’Italia sportiva gli sarà eternamente grata.
Del resto, il nostro sport ha sempre amato i grandi argentini, cugini d’oltreoceano. Soprattutto nel calcio. Sivori, Maradona, Batistuta. E nella pallavolo, sua maestà Julio Velasco, condottiero di una generazione di fenomeni.
Questo episodio è stato registrato nell’autunno del 2022 e l’Italia della pallavolo ha appena vinto un europeo e un mondiale.
Fra due anni ci sono le Olimpiadi a Parigi.
Che ne dite, azzurri, ce la possiamo fare a spezzare la maledizione?
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