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#86 – Il Vajont, storia di una tragedia annunciata

Trascrizione dal podcast Salvatore racconta, episodio pubblicato il 29 ottobre 2022.

Distribuito con licenza Creative Commons CC-BY 4.0 non commerciale.

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Vajont Salvatore racconta Podcast in italiano per stranieri

 

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La storia di oggi parte da Longarone.

Un posto che probabilmente non avete mai sentito nominare. Ma non preoccupatevi, siete in buona compagnia.

Lo conoscono bene solo le persone che vivono proprio lì o nelle vicinanze.

E forse, a pensarci bene, anche altre persone da altre parti d’Italia. Persone che oggi hanno almeno una sessantina d’anni. Facendo uno sforzo, il nome di quel paese gli tornerà in mente e gli farà venire un brivido lungo la schiena.

Che c’è che non va a Longarone? A un primo sguardo sembra un piccolo paese come ce ne sono tanti.

La verità è che ha un ruolo speciale nella storia italiana, un ruolo che non avrebbe mai voluto avere.

Perché il 9 ottobre del 1963 Longarone ha smesso di esistere.

I suoi abitanti, quasi tutti morti. Le sue case, quasi tutte distrutte.

Per colpa di una bomba.

Non una bomba tradizionale.

Non c’entra la guerra, non c’entrano gli esplosivi.

È stata una bomba d’acqua. Arrivata all’improvviso da un piccolo fiume che all’epoca conoscevano solo i locali.

Un fiume che si chiama Vajont.

Ha questo nome un po’ strano che non sembra italiano. E infatti è ladino, la lingua antica delle Dolomiti. Significa “va giù”. Perché effettivamente va giù.

Perché effettivamente scende Un piccolo fiume di montagna che finisce in un grande fiume, il Piave.

Qualcosa non quadra. Come ha fatto un piccolo fiume a causare un’alluvione capace di distruggere un paese intero?

È successo per una catastrofe naturale. Una cosa imprevedibile, inaspettata. In una notte di novembre del 1963.

Per anni, politici, giornali e persone normali ne hanno parlato così. Come di una tragica casualità.

Lo hanno fatto tutti tranne una persona. Una donna che ha detto dall’inizio che la tragedia del Vajont non era solo frutto del caso, ma poteva e doveva essere evitata. E hanno cercato di zittirla, quella donna ficcanaso e invidiosa. Ma che vuole saperne lei?

La storia e la giustizia hanno dimostrato che quella donna aveva ragione. E che aveva scoperto una storia orribile di arroganza, prepotenza, cinismo ed egoismo. Una storia che è costata la vita a 1997 persone.

Quella donna si chiamava Tina Merlin. E la storia che ha scoperto è quella del disastro del Vajont. Una tragedia annunciata.

Diamo un po’ di coordinate. Ci troviamo al confine tra il Veneto e il Friuli-Venezia Giulia. Al di qua del fiume Piave c’è il Veneto, con la città di Longarone, da cui siamo partiti. Al di là, ci sono due montagne. E in mezzo alle montagne una valle dove scorre il Vajont.

In un punto preciso, le due montagne sono molto vicine e lasciano tra loro uno spazio piuttosto stretto. Uno spazio che in italiano chiamiamo gola. E in quella gola oggi c’è una diga, un enorme muro per fermare l’acqua. È la diga del Vajont. Oggi è inattiva, dopo la tragedia del 1963. Ed è stata attiva per pochissimo, prima di essere la causa del disastro di Longarone.

La diga è stata realizzata a cavallo tra gli anni ’50 e gli anni ’60, ma l’idea era molto più antica.

Veniva dai tempi del fascismo, quando Mussolini aveva il chiodo fisso di garantire all’Italia l’autonomia energetica. Per un Paese senza una goccia di petrolio o un grammo di carbone, la soluzione era sfruttare la potenza dei suoi fiumi da convertire in energia con la costruzione di centrali idroelettriche.

Con quella missione in testa, il governo da Roma aveva mandato in giro per l’Italia geologi e ingegneri a cercare posti dove costruire dighe per accumulare acqua da usare per produrre energia.

E una delle squadre di studiosi mandate dal governo era arrivata proprio nella valle del Vajont. Sembrava perfetto. La gola tra le montagne era l’ideale per costruire la diga e la valle sarebbe diventata un perfetto lago artificiale per accumulare l’acqua.

Dal Vajont era partita una relazione dettagliata diretta a Roma che diceva: questo è il posto giusto. Si può costruire.

Solo che poi non se ne era fatto niente. Perché nel 1940 l’Italia era entrata in guerra e le priorità erano cambiate.

Il resto un po’ lo sappiamo. Ne abbiamo parlato negli episodi precedenti. L’Italia del dopoguerra è un enorme cantiere a cielo aperto. Ovunque c’è qualcosa da costruire o da ricostruire E qualcuno ritrova nei cassetti il vecchio progetto della diga nella valle del Vajont.

Non è un ritrovamento casuale, per la verità. C’è un’azienda privata, all’epoca, che si occupa di produrre energia, si chiama Sade. Il suo presidente era stato ministro durante il fascismo, ma era uno di quelli che cadono sempre in piedi, e anche nella nuova Italia antifascista era riuscito a tenersi la vita, la libertà e anche l’azienda.

Insomma, nel 1956, la Sade dell’ex ministro fascista ritrova le vecchie relazioni e manda i suoi ingegneri nella valle del Vajont per iniziare finalmente il progetto. Le analisi geologiche sono vecchie, ma le montagne nel frattempo non sono cambiate, no? E poi l’Italia ha bisogno come prima di energia. Anzi, forse pure più di prima.

Come avevano pensato i geologi degli anni 30, la diga dovrebbe servire ad accumulare l’acqua nella valle del Vajont, tra due monti che si chiamano Salta e Toc.

Il monte Toc è disabitato, non c’è problema. Sul monte Salta invece ci sono due paesini, Erto e Casso, e le terre sulle sue pendici sono occupate dai contadini. È terra dura, di montagna, non è buona da coltivare. Ma per quei contadini, è tutto ciò che hanno e non sono contenti di lasciarla.

La Sade però è decisa a prendersi la terra, con le buone o con le cattive. Alcuni abitanti locali provano a protestare, ma sono quasi tutti poveri e analfabeti, non hanno i mezzi per opporsi. E alla fine la Sade si prende tutto e inizia i lavori. Anche prima di avere ricevuto le autorizzazioni.

I suoi dirigenti sono molto ammanicati. Sentono di potere fare quello che vogliono.

Alcuni contadini di Erto e Casso, quelli meno convinti, fondano un’associazione per unirsi contro la Sade.

La cosa però non interessa a nessuno.

Tranne che a una persona, a Tina Merlin.

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Tina Merlin è originaria proprio di quella zona. Conosce i villaggi, parla il dialetto, capisce bene la gente del luogo.

Oltretutto è giovane, ma ha già tanta esperienza. Durante la guerra, ha fatto la staffetta partigiana. Portava informazioni da un gruppo all’altro della resistenza antifascista. Insomma, è una che sa il fatto suo. Dopo la guerra è diventata giornalista e scrive per L’Unità. Il quotidiano del Partito Comunista Italiano.

Per questo, quando inizia a interessarsi alla storia della diga del Vajont la guardano tutti un po’ con diffidenza. Scrive per il giornale dei comunisti. E poi, ancora peggio, è una donna!

Ma lei va avanti lo stesso, passa settimane a Erto e Casso, parla con i contadini. È curiosa, fa domande, ascolta le voci dei locali arrabbiati e anche spaventati da quell’enorme progetto. Alla Sade questa donna curiosa e impicciona non piace. Decidono di denunciarla per diffusione di notizie false. Si vedranno in tribunale.

Nel frattempo, i lavori per la costruzione della diga vanno avanti e anzi sono in dirittura d’arrivo.

Qualcuno per la verità ha dei dubbi. Siamo sicuri che le analisi geologiche degli anni del fascismo vadano bene? Non è meglio farne delle altre? Le fanno, ma in silenzio, perché non vogliono interruzioni. Viene furi che il monte Toc non è fatto di roccia molto stabile. C’è pericolo di frane, pezzi di roccia che si possono staccare dalla montagna e cadere nel lago.  I dirigenti della Sade lo sanno, ma decidono di non pensarci.

Nell’ottobre del 1960 la diga è finita e il lago è stato riempito per la prima volta. Da un punto di vista ingegneristico, va tutto bene. La diga tiene, ma c’è un problema. Dal monte Toc, di fronte a Erto e Casso, si stacca un pezzo di roccia. Il rischio allora era vero.

E ora che si fa? I dirigenti della Sade si trovano di fronte a un bivio. Andare avanti o fermare tutto? La società ha investito moltissimo nel progetto, non hanno intenzione di fermarsi. E nessuno dallo Stato gli dice che forse è il caso di fare un passo indietro.

I tecnici cercano un compromesso. Se le frane ormai sono probabili, bisogna lavorare per controllarle. Per impedire che facciano uscire l’acqua dal lago e causare danni ai paesi vicini.

Nei paesi vicini, cioè Erto e Casso, non sono così sicuri. Le vecchie associazioni che erano nate per protestare contro la Sade tornano in scena. E torna in scena anche Tina Merlin, che nel frattempo si è difesa in tribunale contro la Sade e alla fine ha vinto, è stata assolta.

Scrive un nuovo articolo su L’Unità sul tema della diga del Vajont. È un articolo lungo, che occupa una pagina intera, parla chiaramente del rischio di una tragedia. Ma ancora una volta nessuno la ascolta.

Nel frattempo, nella valle del Vajont, la terra trema. Piccoli terremoti, ma la gente li sente e ha paura. È il segno che la montagna si muove.

E si muove, finalmente, anche lo Stato italiano.

In quegli anni, il governo ha un bel po’ di problemi, ma ci sono anche alcune idee molto chiare.

Per esempio quella secondo cui le risorse energetiche sono un settore strategico troppo importante, e così lo Stato decide di nazionalizzarle.

Nel 1962 nasce l’Enel, l’ente nazionale energia elettrica, che acquisisce le varie aziende private del settore energetico che ci sono in Italia. E tra loro, naturalmente, la Sade.

Così l’Enel, appena nata, si trova tra le mani la patata bollente del Vajont.

Arrivano nuovi tecnici che ispezionano la diga e capiscono subito che il rischio di una frana non solo esiste, non solo è verosimile, ma è anche molto concreto.

Nell’estate del 1963 ordinano di svuotare il lago artificiale. Ma il processo inizia troppo tardi, e va troppo piano.

La tragedia, invece, arriva in un attimo.

Alle 22:39 esatte del 9 ottobre del 1963 succede quello che tutti temevano. Un enorme pezzo di roccia si stacca dal monte Toc e cade nel lago.

Causando un’onda di 25 milioni di metri cubi d’acqua che scavalca la diga e cade con una violenza spaventosa su quello che c’è subito al di là.

Longarone. Pirago. Rivalta. Villanova. Faè.

E distrugge tutto.

Le fotografie dei giorni successivi sono spaventose, il paesaggio sembra quello di città distrutte da una bomba atomica. Ci sono cadaveri ovunque, fango detriti. Le case rimaste intere si contano sulle dita di una mano.

Il governo inizia subito le operazioni di soccorso. Da tutta Italia arrivano volontari e anche tanti giornalisti. Scrivono articoli pieni di commozione che parlano della forza imprevedibile della natura.

Tutti i giornali ne scrivono così, tranne L’Unità. Che parla ovviamente con la voce di Tina Merlin.

Il suo è un articolo commosso, come gli altri, ma aggiunge qualcosa. Dice che la natura non ha agito da sola, ma ci sono responsabilità dell’uomo, della politica e del cinismo criminale della SADE e dei suoi dirigenti.

Questa volta l’articolo di Tina Merlin non passa inosservato. I suoi colleghi, va detto, tutti uomini, la accusano con ferocia. Le dicono che le piace fare la saputella, e che le sue accuse alla Sade sono infondate e frutto del suo pregiudizio di comunista verso una società privata.

Tina Merlin però ha le spalle larghe, ignora le critiche e va avanti. Decide di raccogliere tutte le informazioni che può per scrivere un libro. Si chiamerà Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe.

È un’inchiesta che parla del Vajont dall’inizio. Racconta nei dettagli le analisi fatte, e soprattutto quelle non fatte, e il potere della Sade che era libera di fare tutto quello che voleva.

Ma il libro resta nel cassetto per vent’anni. Uscirà solo nel 1983.

Perché le cose che dice Merlin portano alla luce verità imbarazzanti. Sono coinvolte persone potenti, è impossibile parlarne apertamente. Perlomeno, non subito. Ma la giustizia confermerà tutto.

Alla fine, quella comunista di provincia che secondo molti si era montata la testa aveva ragione. E se qualcuno l’avesse ascoltata, chissà, forse non staremmo raccontando questa storia.

Oggi nella valle del Vajont, il paesaggio non è cambiato. Ci sono ancora le montagne, c’è di nuovo Longarone, ricostruita, c’è la diga, ancora lì. Un simbolo monumentale e paradossale. Perfetta e indistruttibile, eppure responsabile di una strage. Che di naturale e inevitabile non aveva proprio niente.

 

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