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#85 – La Juve anni 70, meridionale e operaia

Trascrizione dal podcast Salvatore racconta, episodio pubblicato il 22 ottobre 2022.

Distribuito con licenza Creative Commons CC-BY 4.0 non commerciale.

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Anastasi Juventus Salvatore racconta Podcast in italiano per stranieri

 

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Quali sono le città più grandi del sud Italia?

Al primo posto c’è Napoli, poi Palermo, magari Bari. E lì in mezzo, anche Torino.

Torino? Ma come? Che c’entra Torino con il sud.

Non preoccupatevi, non sono impazzito.

Sto solo citando una battuta attribuita a Pietro Novelli, sindaco di Torino a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80. Pare che una volta, parlando della sua Torino, l’abbia definita “la città più grande del sud Italia dopo Napoli e Palermo”.

Sapeva bene, come lo sapete anche voi, che Torino si trova nell’Italia del profondo nord. Ma sapeva altrettanto bene che, negli anni ’70, il tessuto sociale della città era composto in buona parte di immigrati arrivati dal sud.

Persone giunte a Torino per lavorare alla Fiat, che in quel periodo aveva un disperato bisogno di manodopera, e l’aveva trovata in quelle persone del Sud che nelle proprie città non riuscivano a trovare lavoro per mantenere sé stessi e le proprie famiglie.

Da lì Torino si è riempita di migliaia di persone nuove e ha dovuto amalgamare i suoi abitanti autoctoni con i nuovi arrivati. Che parlavano con accenti diversi, o proprio in dialetti diversi. Che nei loro appartamenti cucinavano piatti diversi, che avevano odori diversi. Trovavano abitudini diverse e anche un clima diverso. E non era facile, così all’improvviso, trovare un linguaggio comune.

Gli emigrati del sud, che nel frattempo erano diventati operai della Fiat, all’inizio si sentivano come un corpo estraneo dentro la città. Torino li aveva accolti, ma come si accoglie un ospite. Con gentilezza, ma anche con distacco. Perché tanto prima o poi, un ospite se ne va.

Per i dirigenti della Fiat questo era un problema. Avevano già molte gatte da pelare con gli operai, in quel periodo di scioperi e manifestazioni. Non volevano altro malumore nella catena di montaggio.

Bisognava fare qualcosa, e un’idea l’ha avuta il presidente della Fiat Gianni Agnelli.

Ha trovato il modo per fare avvicinare di più i suoi operai del sud alla città di Torino. Per fargli dimenticare, almeno per qualche giorno all’anno, di essere lontani dalle proprie radici e di essere sfruttati.

Lo ha potuto fare grazie a un altro simbolo di Torino di proprietà della famiglia Agnelli. La Juventus.

Una squadra che già allora era amata anche fuori Torino, ma che Agnelli ha trasformato in un vero simbolo nazionale. Portando a giocare in maglia bianconera calciatori arrivati dal sud Italia.

In particolare un attaccante tutto cuore e grinta, capace di goal spettacolari. Uno che per anni ha reso un po’ più sopportabile il lunedì mattina in fabbrica, nel freddo di Torino, a tutti gli operai di origine siciliana.

Perché lui era uno di loro. Nato a Catania e arrivato a Torino in cerca di riscatto. Si chiamava Pietro Anastasi ed è il vero simbolo della Juventus degli anni ’70, la Juve meridionale e operaia che ha unito l’Italia.

Alla fine degli anni ’60, la Juventus era alla fine di un ciclo. I suoi giocatori simbolo avevano lasciato i colori bianconeri, oppure avevano proprio lasciato il calcio.

La squadra era diventata improvvisamente priva di campioni e aveva giocato alcune stagioni decisamente deludenti.

L’allenatore di quella Juve era paraguayano, si chiamava Heriberto Herrera e aveva idee di calcio rivoluzionarie per i suoi tempi. Riteneva che l’armonia della squadra fosse più importante della capacità dei singoli e chiedeva a tutti i suoi giocatori di seguire schemi precisi. Era un uomo duro, ma con le idee chiare. E alla fine i suoi metodi hanno portato i loro frutti.

Nella stagione 1966-67, la Juventus, pur senza giocatori di primo piano, ottiene buoni risultati con un calcio concreto e organizzato. Capace di mettere il bastone fra le ruote alla vera dominatrice del campionato in quegli anni, l’Inter di Sandro Mazzola.

Un po’ a sorpresa, alla fine di quella stagione, sono i bianconeri a esultare per la vittoria. E succede all’ultima giornata di campionato. Quando mancano solo 90 minuti per decidere chi vincerà lo scudetto, l’Inter è davanti alla Juventus di un punto. I nerazzurri però perdono contro il Mantova per colpa di una papera del loro portiere. La Juventus invece vince contro la Lazio e si laurea campione d’Italia. Per la 13a volta nella sua storia.

La sconfitta all’ultima giornata sembra il canto del cigno della Grande Inter che aveva dominato i precedenti campionati. Ma la Juventus è pronta a prendere il suo posto?

La squadra bianconera ha vinto il campionato senza avere grandi stelle in campo. Lo ha fatto grazie all’organizzazione di gioco e alla tenacia del suo allenatore. È così che nasce, nel gergo giornalistico, il vezzo di parlare di quella Juve come di una squadra operaia. Sicuramente è un gioco di parole dovuto al suo legame con la Fiat, ma anche perché quella Juventus funziona come una catena di montaggio, dove tutti fanno la loro parte ed eseguono gli ordini dell’allenatore, senza primedonne che pensano prima di tutto alla propria prestazione.

Sarà sufficiente per vincere con continuità? Gianni Agnelli non crede. Per la sua Juventus, lui pensa in grande. Intanto la trasforma da semplice società sportiva in società per azioni. E poi vuole giocatori più forti per vincere finalmente non solo in Italia, ma anche in Europa. Nell’estate che segue lo scudetto, prova a comprare dal Cagliari il suo giocatore più forte. Chi ascolta regolarmente Salvatore racconta si ricorderà di lui: Gigi Riva, Rombo di tuono. Ma il Cagliari, e lo stesso Riva, dicono di no. Così Agnelli ci prova con Luigi Meroni, che gioca per i rivali cittadini del Torino. Agnelli è pronto a mettere sul piatto mezzo miliardo di lire, ma l’affare non va in porto.

I tifosi del Torino protestano in città contro la possibilità che il loro idolo passi alla Juventus. E non solo, gli operai della Fiat che tifano per il Toro minacciano di sabotare la produzione se Meroni diventerà bianconero. Agnelli ama la Juventus, ma non al punto di rischiare un sabotaggio dentro la sua azienda, e così ritira l’offerta.

La Juve della stagione 67/68 resta praticamente uguale a quella che ha vinto lo scudetto l’anno prima, ma non è sufficiente per inseguire i sogni europei e nemmeno per confermarsi al primo posto in Italia. La stagione per i bianconeri finisce con un pugno di mosche in mano.

Agnelli però non sta a guardare. Il 1968 è un anno complicato, inizia la rivolta giovanile che presto ispirerà anche le lotte sindacali degli operai. Serve qualcosa per vincere con la Juventus e regalare gioie agli operai che così magari smetteranno di pensare alla rivoluzione.

La soluzione a quel problema, l’abbiamo detto, viene da Catania. E si chiama Pietro Anastasi.

Nella stagione precedente, che per la Juventus era stata piuttosto grigia, Pietro Anastasi aveva fatto il suo esordio in serie A con la maglia del Varese. Una squadra piccola appena arrivata dalla serie B, ma piena di voglia di stupire. Di quella squadra sorprendente Anastasi era la stella assoluta, e lo aveva dimostrato proprio contro la Juventus segnando una tripletta all’interno di una partita finita 5-0.

A Varese, Pietro Anastasi ci era arrivato quasi per caso. Scoperto da un dirigente della squadra lombarda che era rimasto un giorno a Catania per colpa di un problema con l’aereo. Già da ragazzo mostrava le qualità che lo avrebbero reso uno degli attaccanti più forti della sua generazione. Fantasia, forza fisica e soprattutto fiuto per il goal.

Gianni Agnelli, mentre pensa alla Juventus del futuro, capisce che portare Anastasi a Torino sarebbe come prendere due piccioni con una fava. Avrebbe un attaccante fortissimo per la sua Juventus, ma anche un simbolo per i suoi operai meridionali in cerca di qualcuno in cui identificarsi per trovare un legame con Torino.

A maggio del 1968, Anastasi è praticamente promesso sposo dell’Inter, ma Agnelli si intromette nella trattativa con un’offerta imbattibile. 650 milioni di lire al Varese e una fornitura di motori per frigoriferi garantita. Può sembrare un po’ strano detto così, ma il proprietario del Varese possiede anche la Ignis, una fabbrica di frigoriferi a cui chiaramente conviene molto avere una bella fornitura di motori in anticipo. Così, è affare fatto. Dall’anno successivo, Pietro Anastasi sarà un attaccante della Juventus.

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Anastasi è spontaneo, ironico, scuro di carnagione. Per i tifosi juventini di origine siciliana diventa subito un idolo. Certo, Anastasi guadagna molti più soldi di un comune operaio e chiaramente rispetto a tutti loro è un privilegiato, ma tra il calciatore e il suo pubblico si instaura un rapporto di vicinanza. Lui con il pallone in campo, loro con gli attrezzi in fabbrica, hanno fatto lo stesso percorso. Lasciando la casa di origine per trovarne un’altra a Torino.

Le prime tre stagioni di Anastasi alla Juventus non portano grandi successi, ma la squadra si costruisce attorno a lui pezzo dopo pezzo. Agnelli ha capito che portare in bianconero giocatori del sud funziona per la Fiat e anche per la squadra, che diventa sempre più vicina ai tifosi. Così in quegli anni, porta alla Juventus: Giuseppe Furino -nato a Palermo e cresciuto in Campania- e Franco Causio, che invece arriva da Lecce. Arriva anche un roccioso difensore sardo: Antonello Cuccureddu.

Assieme a loro, si unisce alla squadra un altro attaccante che farà coppia con Anastasi. Questo però è un torinese doc, destinato a diventare un’altra bandiera storica della Juventus, Roberto Bettega.

Bettega e Anastasi sono diversi, ma complementari. Il torinese è elegante e riflessivo, mentre il catanese è impulsivo e imprevedibile.

Con questa squadra, la Juventus torna a vincere. Campione d’Italia nella stagione 71/72 e anche in quella 72/73. In quell’anno, arriva anche in finale in Coppa dei Campioni ma deve cedere di fronte all’onnipotenza calcistica dell’Ajax di Johann Cruijff.

Sono anni di vittorie, e Anastasi diventa sempre più un idolo, la Juventus lo nomina capitano e conquista sempre più tifosi. Nella città di Torino, comincia a farsi sempre più netta una separazione sociale tra i tifosi della Juve e quelli del Toro. Gli operai e gli altri emigrati del sud sono in maggior parte juventini, è più naturale per loro immedesimarsi in una squadra che nel nome non si identifica in una città e in cui giocano tanti meridionali. I torinesi preferiscono tifare per il Torino per motivi opposti. Proprio per marcare la loro identità locale rispetto ai nuovi arrivati.

Oggi che Torino ha perso la sua anima industriale e che le famiglie meridionali in città sono completamente assimilate, questa distinzione ha perso completamente di valore, ma negli anni ’70 era fortissima.

Quando Anastasi faceva goal e i tifosi avversari di squadre del nord lo offendevano per le sue origini meridionali, per lui era come benzina aggiuntiva da mettere nel motore per trovare ulteriore motivazione e continuare a segnare.

Anastasi resta alla Juventus per otto stagioni, segnando 78 goal e vincendo tre scudetti. Lascia Torino nel 1976 a 28 anni. Da tempo litigava con l’allenatore e anche con i compagni. Si era rotto qualcosa, evidentemente. Quell’estate passa all’Inter.

I tifosi interisti si fregano le mani, finalmente avranno per loro i goal di Anastasi, ma in realtà l’attaccante catanese è ormai scarico, privo di motivazione. L’affare lo ha fatto la Juventus, che in cambio dall’Inter ha preso Roberto Boninsegna. E l’anno dopo, il primo senza Anastasi, i bianconeri vincono finalmente il loro primo trofeo europeo: la Coppa Uefa.

La Juventus continua un percorso di vittorie che durerà fino alla metà degli anni ’80. Nel 1982, vincerà il suo ventesimo scudetto diventando l’unica squadra italiana a potere cucire sopra lo stemma sulla maglia due stelle. Oggi quelle stelle sono tre, e nessun’altra squadra in Italia ne ha ancora conquistate due.

La storia di vittorie che ha portato la Juventus a diventare la squadra più vincente di sempre del calcio italiano è cominciata con i goal di Pietro Anastasi.

E con l’idea, cinica ma pur sempre geniale, di prendere una squadra piemontese e trasformarla in una squadra operaia e meridionale. Più simile alla Torino di quegli anni, più simile all’Italia.

Destinata a diventare un simbolo ben oltre i confini della sua città natale.

Dedico quest’episodio a un ex-ragazzo degli anni ’70. Come Anastasi, anche lui siciliano e juventino. Ciao papà, spero che l’episodio ti sia piaciuto e scusami se ho detto qualche inesattezza.

 

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