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#77 – Nettuno, capitale del baseball

Trascrizione dal podcast Salvatore racconta, episodio pubblicato il 27 agosto 2022.

Distribuito con licenza Creative Commons CC-BY 4.0 non commerciale.

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Nettuno Baseball 1945 Nettuno la capitale del baseball Salvatore racconta Podcast in italiano per stranieri
Foto di Riccardo Nardini Fotografie, all rights reserved.
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L’atmosfera di una media città italiana di provincia è sempre uguale. Che sia a nord, al centro o a sud, le differenze sono minime, quasi impercettibili.

Se ci arriviamo in un giorno d’estate, ad esempio, vedremo quasi sicuramente un gruppo di anziani seduti su una panchina al fresco. Donne che stendono il bucato da balconi e finestre. Un capannello di persone che parlano davanti a un bar. Magari coppie di adolescenti sedute su un muretto o su un motorino, e poi un gruppo di ragazzini che giocano a calcio. In un campetto, o anche per la strada se serve.

È uno scenario che si ripete con facilità, in quasi ogni città e paese di provincia.

Tranne che forse a Nettuno, circa 50.000 abitanti poco a sud di Roma.

In questa città costiera, che porta il nome del dio romano del mare, è tutto come te lo immagini. Bar con le sedie bianche di plastica sul marciapiede, signore anziane abbronzatissime che chiacchierano, gente che mangia il gelato. E tutto quello che abbiamo detto prima.

Con una differenza, però. I ragazzini di Nettuno non giocano a calcio.

Nessuno glielo impedisce, ovviamente. E sicuramente qualcuno con un pallone rotondo tra i piedi si trova.

Ma il fatto è che lo sport più amato in questa città è un altro. Uno sport che in Italia praticano in pochi, che per molti è un’americanata senza senso, dalle regole incomprensibili e probabilmente anche molto noiose.

Non è vero. Almeno, non è vero a Nettuno. Dove gli americani hanno lasciato tracce importanti e hanno contagiato gli abitanti locali con una delle loro passioni più grandi. Quella dello sport con guanti, mazze e grosse palle bianche con una cucitura rossa. Sto parlando ovviamente del baseball.

Oggi ti racconto la storia di come questa piccola città, dove si fa fatica a trovare qualcuno che parla bene inglese, è diventata la capitale italiana dello sport più americano di tutti.

Fino all’inizio del XX secolo, quasi nessuno a parte i locali aveva mai sentito parlare di Nettuno. Era un posto come un altro del litorale laziale, portuali e pescatori che facevano la loro vita tranquilla. Ovviamente, all’epoca al baseball non ci pensava nessuno. Anzi, è molto probabile che nessun nettunese sapesse nemmeno dell’esistenza di uno sport del genere.

La storia è cambiata con la II guerra mondiale. Per la precisione, con le sue battute finali. Dopo la fallimentare prima parte del conflitto, quando l’Italia fascista aveva provato a partecipare alle conquiste naziste, l’Italia del sud era stata occupata dagli Alleati anglo-americani mentre il centro-nord era finito in mano ai tedeschi e a un governo italiano collaborazionista.

Nettuno, come tutto il Lazio, era nella parte amministrata dai tedeschi. Sono stati anni duri per la città, con le persone che avevano paura a uscire da casa e pativano la fame.

Fino al 22 gennaio del 1944, quando gli Alleati anglo-americani mettono in atto l’operazione Shingle. Ovvero, una missione per raggiungere via mare la costa a sud di Roma per superare la linea di difesa tedesca e andare a liberare la capitale. I soldati sbarcano sulla costa nel territorio tra i comuni di Anzio e di Nettuno.

Lo scontro dura per mesi, da gennaio a maggio del 1944 mettendo a dura prova i cittadini di Anzio e di Nettuno, direttamente coinvolti nei combattimenti.

Alla fine gli Alleati vincono, ma è un po’ una vittoria di Pirro. Perché sul campo di battaglia restano senza vita i corpi di migliaia di soldati americani. E perché i tedeschi sono costretti ad abbandonare la costa, ma vanno a rinforzare una linea di difesa un po’ più a nord. Quella che sarà la linea gotica. E per batterli ci vorrà ancora un anno.

E intanto a Nettuno che succede?

Succede quello che succede spesso in questi anni quando arrivano gli americani. Grande festa per le strade, emozione, la sensazione di essere finalmente liberi. E poi, un po’ di benessere. I soldati distribuiscono cibo, cioccolata, jeans. Per i nettunesi, che fino a pochi giorni prima morivano letteralmente di fame, sembra manna dal cielo.

Ma non ci sono solo cibo e vestiti nei pacchi degli yankee arrivati dal mare. Quando una battaglia dura mesi, c’è anche bisogno di scaricare la tensione. E i soldati americani scaricano la tensione giocando a baseball.

Uno sport di cui i nettunesi non conoscevano nemmeno l’esistenza. E probabilmente guardavano con perplessità quei ragazzi in divisa che si divertivano colpendo la palla con una mazza.

Fatto sta che, piano piano, alcuni ragazzi di Nettuno che aiutavano i soldati americani, magari facendo da staffetta tra un punto e l’altro, cominciano a interessarsi a quel gioco. La maggior parte di loro non spiccica una parola d’inglese, ma tra i soldati ci sono molti italoamericani che ricordano ancora qualche parola sentita dai loro genitori e dai loro nonni. Così, a parole e gesti, i nettunesi scoprono che quel gioco si chiama baseball e cominciano a capirne le prime regole.

E si dicono tra loro, ma sai che questo sport degli americani non è mica male?

Non è male per niente! Tanto che, dopo la fine della guerra, nasce la prima squadra di Nettuno. Per la verità, non gioca davvero a baseball, ma a softball, cioè la sua versione un po’ semplificata.

Il pioniere di quest’idea è un ufficiale napoletano, Alberto Fasano, anche lui aveva visto gli americani giocare a baseball durante la guerra. Arrivato a Nettuno per studiare alla scuola per ufficiali della polizia, trova terreno fertile per la sua nuova passione, visto che anche i nettunesi hanno da poco scoperto lo sport degli americani. La squadra si chiama Nettuno P.S., cioè Pubblica Sicurezza, e ne fanno parte giovani nettunesi e allievi della scuola di polizia che arrivano da tutta Italia.

Ma il meglio deve ancora venire.

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L’anno dopo, l’esercito americano manda a Nettuno un nuovo ufficiale, il tenente Charles Butte. La guerra è finita, ma c’è ancora del lavoro da fare. Rendere onore alla memoria dei soldati americani caduti durante la guerra nel sud Italia. Il tenente Butte arriva a Nettuno con il compito di coordinare i lavori di costruzione di un cimitero militare. Sarà un cimitero grande, dovrà ospitare più di 7000 corpi. E per costruirlo serviranno tanti operai.

I giovani nettunesi non se lo fanno dire due volte. Lavorare per gli americani non è solo un’opportunità, è un sogno. Si può guadagnare bene e stare a contatto con il loro mondo. Si può anche giocare a baseball.

Butte nota subito tra i muratori che lavorano per lui una grande passione per il baseball. Quando poi scopre della squadra di softball locale, ha un’idea. Costruire uno stadio, un diamante come si dice in gergo, dove fare giocare le squadre di Nettuno.

Certo, ci sono altre priorità. Un cimitero da finire, e una città da rimettere in piedi. Ma gli Stati Uniti di quel periodo sono il paese dei balocchi, tutto è possibile, basta volerlo. Con i materiali di scarto del cimitero, gli stessi operai dopo il lavoro costruiscono il primo stadio di baseball di Nettuno. Prende il nome di Steno Borghese, l’uomo che ha donato il terreno per la costruzione.

Gli operai che hanno costruito lo stadio formano una squadra, allenata dallo stesso Butte. Prendono il nome di Libertas Nettuno che poi cambia in USMC Nettuno, ovvero la squadra del cimitero militare di Nettuno. Hanno lavorato tutti lì, si sono conosciuti lì, hanno costruito lo stadio assieme. Quel cimitero, simbolo di morte, per loro diventa un simbolo di identità e di vita.

Spinta da questa energia, la squadra dei muratori nettunesi partecipa al campionato di serie A di softball e lo vince al primo tentativo. L’entusiasmo è alle stelle.

Un anno dopo cambia tutto di nuovo. Non c’è niente di cui stupirsi, sono anni frenetici, di continuo cambiamento. Il mondo della guerra fredda sta per nascere sulle ceneri di quello di prima della guerra.  Charles Butte, da allenatore del Nettuno campione d’Italia di softball, deve tornare in America. A prendere il suo posto come direttore del cimitero è un altro militare, si chiama Horace McGarity. L’uomo che i nettunesi chiameranno “il mago”. Perché McGarity, prende il testimone di Butte non solo come direttore del cimitero, ma anche come allenatore di softball. Anzi, di baseball.

Perché è proprio lui a decidere che i tempi sono maturi per il salto di qualità. I ragazzi nettunesi giocano sempre meglio, più consapevoli, più motivati. Non c’è motivo di continuare a giocare solo a softball. Qualcuno ha paura, pensa che McGarity abbia fatto il passo più lungo della gamba. Ma non è così. Il soprannome di “il mago” lo ha meritato sul campo. Con lui alla guida, Nettuno vince il campionato italiano di baseball sette volte in otto anni.

Ormai la passione per lo sport americano non è un’esclusiva dei nettunesi. Il baseball ha messo radici anche a Rimini e a Parma, per esempio, ma in quel periodo la forza di Nettuno sembra veramente insuperabile.

E deriva dalla passione diffusa a macchia d’olio tra i residenti. Succede sempre un po’ così. Quando una squadra vince, tutti cominciano a interessarsi, si appassionano e iniziano a giocare. È così che in pochi anni Nettuno diventa nota come the city of baseball.

Se ne accorge anche una leggenda assoluta del baseball americano e mondiale. Il mitico Joe Di Maggio. Che un giorno del 1957 si trova a Roma in vacanza e viene a sapere che a pochi chilometri dalla città eterna c’è un paesino dove vanno matti per il baseball. E ovviamente non può rinunciare a visitarlo.

Sulla visita di Joe Di Maggio a Nettuno si raccontano storie che spesso rasentano la leggenda. È sicuro, e documentato, che l’americano abbia giocato un po’ con i nettunesi mostrando il suo livello decisamente fuori dal comune come battitore. Qualcuno dice che ha realizzato due fuoricampo, cioè gli americani home run. Qualcun altro dice che sono stati tre. I più fantasiosi arrivano a giurare che uno di quei fuoricampo sia stato così forte da mandare la palla non solo fuori dallo stadio, ma dritto nel mare di fronte alla città.

Ovviamente è difficile filtrare la verità dalle leggende, ma questa storia ci dice chiaramente quanto il baseball fosse radicato a Nettuno pochi anni dopo la seconda guerra mondiale.

Come detto all’inizio, a Nettuno si respira ancora molto baseball per la strada. Alcuni ex giocatori e anziani un po’ si lamentano, dicono che non è più la stessa cosa, che molti ragazzini preferiscono giocare a calcio perché è più facile, ci sono più possibilità e magari si può fare una vera carriera. Allo stesso tempo però ammettono che è quasi impossibile trovare una famiglia nettunese dove almeno uno dei figli non giochi a baseball.

In ogni caso, la storia di Nettuno è praticamente unica nel panorama italiano. Gruppi di soldati americani hanno passato in Italia anche più tempo di quelli arrivati sulle coste del Lazio nel 1943, eppure in nessun luogo come a Nettuno la passione per il baseball è filtrata dai ragazzi in divisa ai locali.

E soprattutto il baseball è rimasta una cosa dei nettunesi. Nei paesi vicini, anche la stessa Anzio che è lì letteralmente a due passi, questo sport non ha mai attecchito granché.

Ci deve essere stato qualcosa nell’aria di Nettuno a rendere speciale il rapporto con i soldati americani e con la magia della loro passione. Quella magia che ha fatto sì che una città di cinquantamila abitanti abbia potuto festeggiare per 17 volte la vittoria del titolo di Campioni d’Italia e per altre sette volte quella del titolo di Campioni d’Europa. In uno sport che molti italiani e italiane conoscono a stento, ma che a Nettuno è storia e identità.

La storia e l’identità della capitale italiana del baseball.

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