#66 – La prima guerra mondiale dell’Italia
Trascrizione dal podcast Salvatore racconta, episodio pubblicato il 10 giugno 2022.
Distribuito con licenza Creative Commons CC-BY 4.0 non commerciale.
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Le persone della generazione dei miei nonni avevano un modo particolare per riferirsi a qualcosa di molto vecchio e lontano nel tempo.
Dicevano per esempio: quest’orologio risale al 15-18!
Oppure: non mangiavo un tiramisù così buono dal 15-18
Che vogliono dire questi numeri?
Sono due date, la versione abbreviata di due anni.
Due anni che hanno segnato passaggi importanti della storia italiana. Il 1915 e il 1918.
Un intervallo di tempo in cui in Italia, e non solo, sono morte moltissime persone. Centinaia di migliaia di contadini che conoscevano bene la terra, la vigna e l’aratro hanno imparato a conoscere la disciplina, il rancio, la mitragliatrice, le trincee.
Contadini che conoscevano bene solo il loro paese e forse un po’ i paesi vicini hanno imparato a memoria i nomi di posti di cui ignoravano persino l’esistenza.
Caporetto, Bolzano, Vittorio Veneto.
Tra il 1915 e il 1918, l’Italia ha preso parte alla prima guerra mondiale. Quella che chiamavano La Grande guerra. Perché non potevano, e non volevano, immaginare che vent’anni dopo ne sarebbe scoppiata una ancora più grande. La seconda.
Ma oggi parliamo della prima. Degli eventi che l’hanno segnata e del modo in cui l’Italia è cambiata radicalmente, in soli tre anni.
Tre anni così intensi da diventare un modo di dire.
E allora parliamone, del 15-18. Della prima guerra mondiale dell’Italia.
Partiamo da una precisazione.
Forse quelli e quelle di voi che amano la storia a sentire 15-18 hanno alzato un sopracciglio.
Perché la guerra è cominciata nel 1914, non nel 1915. E avete ragione, eh. Solo che l’Italia anche in guerra ci è arrivata in ritardo. Lo dico scherzando, ma non troppo.
Andiamo per ordine.
All’inizio del XX secolo, l’Europa si trova in un equilibrio decisamente precario.
Alcuni vecchi stati, come l’impero ottomano, sembrano pronti a sparire per sempre. Altri, come la nuova Germania unita, sembrano arrembanti e pieni di energia, pronti a conquistare sempre più potere e più influenza.
E altri ancora, come l’Austria-Ungheria, forti all’apparenza ma pieni di gatte da pelare.
Come la questione balcanica, per esempio.
Perché l’impero austro-ungarico controlla un pezzo dei Balcani. Più o meno, gli attuali territori di Slovenia, Bosnia e Croazia. Oltre il confine, c’è il regno di Serbia, molto bellicoso e convinto che le persone di lingua e cultura serba che vivono nei territori austro-ungarici siano oppresse e dovrebbero vivere sotto il regno serbo.
È una cosa che pensano in tanti, compreso un giovane di nome Gavrilo Princip. Molto probabilmente lo avete già sentito nominare.
Perché è l’uomo che, il 28 giugno del 1914, ha ucciso a colpi di pistola l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, ovvero l’uomo che sarebbe dovuto diventare il prossimo imperatore d’Austria Ungheria.
Come noto, questo apparentemente piccolo evento causa la reazione dell’Austria che dichiara guerra alla Serbia. Nel giro di poco tempo, la Russia attacca l’Austria per difendere la Serbia. La Germania, alleata dell’Austria, attacca la Francia, alleata della Russia e quindi nemica.
Un piccolo rompicapo, insomma. Fatto sta che, in tutto questo caos, l’Italia per il momento resta a guardare.
Tecnicamente, anni prima il governo italiano ha firmato un trattato di alleanza con Austria e Germania, secondo il quale, in teoria, l’Italia dovrebbe entrare in guerra in difesa dei due alleati.
C’è un problema, però: il Re Vittorio Emanuele III, il governo e i ministri non ci pensano nemmeno.
Perché quel trattato è molto ambiguo e lascia spazio all’interpretazione.
E molti si dicono sinceramente: ma entrare in guerra come alleati dell’Austria, di preciso, perché?
L’Austria è il nemico storico dell’Italia dai tempi delle guerre per l’indipendenza. Quel trattato di alleanza l’Italia l’ha firmato per ammirazione verso la Germania, ma dell’Austria farebbe volentieri a meno.
Inoltre, nella stanza dei bottoni sono ben consapevoli che l’esercito italiano non è pronto per una guerra europea.
Nei mesi successivi però si apre il dibattito, con toni che oggi ci sembrerebbero assurdi.
Nascono gli interventisti, persone a favore dell’intervento in guerra dell’Italia. Con il dettaglio però che vogliono combattere, sì, ma non a fianco dell’Austria bensì contro. Perché gli austriaci controllano ancora Trento, Trieste, l’Istria e la Dalmazia. Terre abitate in larga parte da italiani e che, secondo la retorica dell’epoca, dovrebbero passare all’Italia.
Gli interventisti non sono molti, ma sono influenti. Sono artisti, politici, giornalisti. Tra loro, anche il direttore di un nuovo giornale, uno che da poco tempo è stato cacciato dal partito socialista per le sue posizioni a favore della guerra. È un certo Benito Mussolini.
L’atmosfera si scalda, la guerra va avanti e nel frattempo il re e il governo firmano un patto segreto con Francia e Gran Bretagna per entrare in guerra con loro, contro la Germania e soprattutto contro l’Austria. È un patto talmente segreto che persino il parlamento italiano ne è all’oscuro.
Fatto sta che, alla fine, Il 24 maggio del 1915, l’Italia entra in guerra.
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L’obiettivo italiano dichiarato è approfittare della debolezza dell’impero austriaco per avanzare sul fronte di nord est e strappargli territori. Il fronte si trova sul fiume Isonzo, che ancora oggi scorre tra Italia e Slovenia.
Nonostante l’entusiasmo di alcuni, la guerra si rivela dura e lenta, i soldati muoiono come mosche nelle trincee, uccisi dai nemici o dalle malattie, ottenendo conquiste territoriali poco significative.
Tra il 1915 e il 1917, nelle trincee dell’Isonzo, si combattono undici battaglie tra Italia e Austria che non portano quasi a niente con costi umani altissimi.
Tra le piccole conquiste italiane, c’è un paesino che oggi si trova in Slovenia e che si chiama Kobarid.
Il suo nome italianizzato è Caporetto. Un nome innocente, anche un po’ buffo, che però diventa presto sinonimo di tragedia.
Perché dopo 11 battaglie sull’Isonzo, gli austriaci sono con il fiato corto ma resistono ancora. E convincono gli alleati tedeschi ad aiutarli a liberarsi degli italiani.
Il piano per farlo è quello di un attacco a sorpresa, che gli italiani non si aspettano minimamente.
E passa proprio da Caporetto.
L’esercito italiano viene preso alla sprovvista, a Caporetto si combatte la dodicesima battaglia dell’Isonzo ed è un disastro immenso. Migliaia di morti, feriti e sbandati. Eserciti nemici entrano in Italia costringendo migliaia di persone a lasciare le proprie case e scappare.
È una sconfitta enorme, che manda tutta Italia nello sconforto. Anche quelli che credevano più di tutti nella guerra, cominciano ad avere dubbi.
Caporetto lascia delle ferite inguaribili nell’identità nazionale, al punto che il nome di questa piccola città che nessuno oggi saprebbe trovare su una mappa è diventato un sinonimo di sconfitta e disastro.
Ma torniamo a noi. Dopo la batosta di Caporetto, il fronte arretra di molti chilometri e sembra che l’Italia intera stia per andare gambe all’aria.
Perché è entrata in guerra con l’obiettivo di strappare territori all’Austria, ma così rischia addirittura di dovergliene cedere alcuni.
Non si può fare così. Il governo cambia le carte in tavola, nomina nuovi generali e stringe contatti più forti con gli alleati francesi e britannici a cui nel frattempo si sono aggiunti anche gli americani.
Italiani e austriaci continuano a combattere vicino a un fiume. Non è più l’Isonzo, ma uno molto più a sud. Il Piave. L’esercito italiano, adesso organizzato meglio e aiutato dagli alleati francesi e britannici, riesce a tenere contro gli austriaci. Ma tenere, adesso, non basta.
Perché è chiaro, a livello europeo, che la guerra sta per finire. La Germania, che aveva iniziato il conflitto con grande energia ed entusiasmo, adesso si trova con l’acqua alla gola. E l’Austria-Ungheria si sta sgretolando perché tanti popoli dell’impero provano a sfruttare la confusione per ottenere la loro indipendenza. I polacchi, i cecoslovacchi, gli stessi ungheresi.
Si arriva a un certo punto alla situazione un po’ surreale per cui l’Austria-Ungheria perde pezzi del suo impero, ma tiene ancora sul fronte italiano.
Cosa che a Roma causa molti dibattiti, perché questo è un problema politico e diplomatico piuttosto importante. L’Italia è entrata in guerra con l’obiettivo di ottenere territori dall’Austria-Ungheria. Se però si firmasse adesso la pace, potrebbe ottenere forse quello che già aveva prima del 1915. È una cosa inaccettabile.
Bisogna attaccare gli austriaci, allontanarli dal Piave e riconquistare terreno. Bisogna finire questa guerra tragica e maledetta con una vittoria.
Cosa che alla fine succede davvero. L’esercito austro-ungarico combatte con grande tenacia, ma è allo sbaraglio dal punto di vista organizzativo e logistico.
Quello italiano, dopo anni di disorganizzazione e soldati demotivati, combatte con più energia, avanza, spinge gli austriaci oltre il Piave.
Il 24 ottobre del 1918, arriva il momento della battaglia finale. Si combatte a Vittorio Veneto, oggi piccola cittadina in provincia di Treviso, e per l’Italia è la vittoria definitiva nella guerra. L’imperatore d’Austria-Ungheria firma la dichiarazione di resa e il suo esercito alza bandiera bianca.
Dopo tre anni e milioni di morti, feriti e prigionieri, la guerra è finita. L’Italia ha vinto.
Ha vinto… sulla carta. Il Paese è impoverito, pieno di profughi, moltissimi uomini sono morti o disabili e lasciano famiglie e villaggi privi della forza lavoro necessaria per andare avanti. L’economia rischia di crollare. Tra la popolazione italiana, a vari livelli, c’è molto malcontento. La fiducia verso il governo e la politica è a un livello veramente molto basso.
Infine, ai trattati di pace a Versailles, l’Italia deve accontentarsi delle briciole. Trento e Trieste? Va bene, saranno italiane. Ma di Istria e Dalmazia non se ne parla. È vero, ci vivono molti italiani, ma anche moltissimi slavi. Secondo la nuova teoria dell’autodeterminazione dei popoli, proposta dal presidente americano Wilson, è giusto che quelle regioni vadano al neonato regno di Jugoslavia.
Così gli italiani tornano a casa con l’amaro in bocca e una sensazione strana. Per cosa abbiamo combattuto? Qual è stato il senso di tutto questo?
I giornali dicono che abbiamo vinto la guerra, ma è come se l’avessimo persa.
Paesi e città si riempiono di disoccupati, mutilati, ex soldati che sono tornati dalla guerra traumatizzati. Ormai non sono più capaci di vivere in modo normale e civile. Conoscono solo la durezza, la disciplina e la violenza.
Tutti si sentono come se gli fosse stato rubato qualcosa. Nessuno è soddisfatto, nessuno è sicuro.
I dirigenti del partito socialista approfittano della situazione per togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Loro lo avevano detto dal primo minuto che quella guerra sarebbe stata un massacro inutile. Milioni di proletari morti per le ambizioni dei signori e dei padroni. Sono arrabbiati e anche euforici, perché c’è stata la rivoluzione in Russia e Lenin è la dimostrazione che il socialismo può vincere.
Qualcuno ci crede davvero, subito dopo la guerra, che ci siano le condizioni buone per fare la rivoluzione. Così gli operai occupano fabbriche e officine, organizzano scioperi, resistono alla polizia.
I padroni delle fabbriche hanno paura, si sentono minacciati e vanno in cerca di soluzioni. Le trovano a portata di mano, quasi casualmente. Le città sono piene proprio di quegli ex soldati arrabbiati e violenti, che credono nell’ordine e nella disciplina. E che odiano i socialisti perché si riempiono la bocca con la pace, ma poi fanno la rivoluzione e portano caos e disordine.
In breve tempo, si creano squadre di uomini armati e violenti che girano per le campagne e le città a sopprimere le fantasie rivoluzionarie dei socialisti. Da queste squadre, in breve tempo, nascerà l’energia reazionaria che cambierà l’Italia. Perché è proprio da qui che nascono i primi semi del fascismo.
Che aprirà un altro capitolo, ancora più oscuro, della storia italiana.
Uno di cui però parleremo un’altra volta.
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