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#62 – Bandiere rosse. Storia dei comunisti italiani

Trascrizione dal podcast Salvatore racconta, episodio pubblicato il 14 maggio 2022.

Distribuito con licenza Creative Commons CC-BY 4.0 non commerciale.

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Bandiere rosse, Storia dei comunisti italiani - Salvatore racconta Podcast in italiano per stranieri

 

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Una domenica di novembre, alla periferia di Bologna. È un giorno umido, di quelli che caratterizzano l’autunno da queste parti.

In tarda mattinata, un uomo elegante arriva in una sala piena di anziani. È una sorpresa, ma gradita.

Gli anziani sono vecchi partigiani. Hanno combattuto nella seconda guerra mondiale contro i nazifascisti. Nel corpo sono attempati e indolenziti, ma nello spirito sono ancora gagliardi e combattivi.

L’uomo che è andato a trovarli, in un certo senso, è uno di loro, un erede di parte della loro storia. Per questo loro sono contenti. E lo ascoltano con interesse.

Abbiamo detto che era una domenica di novembre, ma non abbiamo detto di che anno.

Il 1989.

Un anno cruciale per la storia. L’anno in cui è caduto il muro di Berlino, in Polonia ha vinto Solidarność, in Unione Sovietica c’è Michail Gorbačëv. Tutto sta cambiando in Europa, nel mondo, e anche in Italia.

Quell’uomo lo sa, ci pensa da tempo. È in una posizione per la quale, pensarci è importante.

E quel giorno, un po’ a sorpresa, di fronte a quei vecchi partigiani, l’uomo parla vagamente di cambiamenti, di svecchiare nomi e visioni del mondo. Di quel mondo che i partigiani hanno creato e per cui hanno lottato.

Sembrano parole dette lì per caso, e invece fanno scoppiare un finimondo.

Perché mentre il mondo della guerra fredda sta andando in frantumi, la sorte dei partiti socialisti e comunisti in Europa occidentale è appeso a un filo.

Ha senso chiamarsi ancora comunisti dopo la fine dell’Unione sovietica?

Quell’uomo lì che abbiamo incontrato, in quel giorno di novembre del 1989 nella periferia di Bologna, pensa di no.

E che lo pensi lui è una cosa importante. Visto che quell’uomo si chiama Achille Occhetto, di mestiere fa il segretario del PCI, il Partito Comunista Italiano.

Un partito che per anni è stato cruciale per la vita politica italiana e che, dopo quel discorso bolognese, è pronto a uscire di scena per sempre.

Non è possibile capire la storia italiana del XX secolo senza conoscere l’importanza e la peculiarità del Partito Comunista Italiano. Un partito nato nel 1921 e resistito a lungo per tutta la vita repubblicana.

Un partito che all’inizio credeva nella rivoluzione, poi un po’ meno, poi ancora un po’ meno per finire nel non crederci affatto. Passato per le montagne russe del Novecento, tra cocenti sconfitte, risultati sfavillanti, conti mai risolti con la storia, migliaia di militanti per le strade e nelle sezioni, ma mai abbastanza voti nelle urne per potere governare l’Italia.

Ma quanti sono stati e, soprattutto, chi sono stati i comunisti italiani?

Ve lo immaginate qualche milione di persone in Italia che crede nella dittatura del proletariato? E che sogna di vivere come in Unione Sovietica? Probabilmente no, e avete ragione.

Perché i comunisti italiani hanno avuto idee molto diverse su cosa significasse essere tali. Un po’ per ragioni storiche, un po’ per ragioni culturali. Per decenni, essere comunista in Italia è significato essere tante cose, oggi non tutte comprensibili.

Per questo, partiamo dall’inizio.

Nel 1921, in un teatro di Livorno si incontrano gli esponenti dell’ala più estremista del partito socialista italiano. Quelli che sono galvanizzati dalla rivoluzione d’ottobre e che vogliono cogliere la palla al balzo per fare in Italia quello che Lenin ha fatto in Russia.

Con questa idea, si ritrovano a Livorno per fondare il PCdI, il Partito Comunista d’Italia. Tra loro, c’è anche Antonio Gramsci, uno dei più grandi intellettuali italiani di tutti i tempi.

Quello è davvero un partito rivoluzionario, che ha l’obiettivo di rovesciare lo stato borghese. I tempi sono quelli giusti. Dopo la prima guerra, l’Italia è in fibrillazione. Arrabbiata, impoverita, stanca. E in effetti una rivoluzione in Italia avviene, ma non è quella comunista. Anzi, è quella dei più grandi nemici dei comunisti, quelli del partito fascista.

Nel giro di pochi anni, il Partito Comunista diventa clandestino, molti suoi dirigenti vengono arrestati e condannati.

Negli anni d’oro del fascismo, tuttavia, i comunisti italiani continuano a lottare, lavorano nell’ombra contro la dittatura e poi, durante la guerra, danno un contributo fondamentale alla costruzione della resistenza partigiana. Lo possono fare anche perché l’Unione Sovietica li sostiene e li finanzia. A partire da Josef Stalin in persona.

È proprio lui a cambiare per la prima volta le sorti del Partito Comunista Italiano. È convinto che per la situazione geopolitica internazionale sia meglio non fare la rivoluzione in Italia.

Di questo messaggio si fa portatore l’esponente più importante del PCI clandestino sotto il fascismo.

Palmiro Togliatti.

Togliatti è già da tempo un pezzo grosso, è molto ammanicato, ha contatti con Mosca. Il compito che riceve è delicato, ma lui è la persona giusta al posto giusto. Sotto la sua guida, i comunisti italiani rinunciano alla rivoluzione e si siedono al tavolo con le altre forze antifasciste scrivere la Costituzione della nuova Repubblica italiana.

È un periodo eccezionale questo. E come tale, dura poco. Una volta finita la costituzione, nel 1948 ci sono le elezioni. E questa volta, il PCI e i partiti moderati della coalizione antifascista sono avversari.

In particolare, la rivalità è tra il PCI, e la DC, la democrazia cristiana. Un partito di centro moderato, cattolico e filoamericano che propone un’idea di mondo radicalmente diversa rispetto a quella della sinistra.

Sono elezioni importanti, con le quali scegliere letteralmente da che parte stare.

C’è la convinzione che, se vincono i comunisti, diventerà un Paese socialista sulla falsariga di Polonia o Cecoslovacchia. E se vincerà la DC, sarà un Paese come la Francia o la Gran Bretagna.

Non avremo mai la controprova, fatto sta che alle elezioni del 1948 vince la DC. Per la prima di tantissime volte. Mentre il PCI non vincerà mai un’elezione nazionale.

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Perché succede questo? Per tanti motivi.

Sicuramente perché l’Italia del dopoguerra è un Paese moderato, che dei comunisti ha paura. Le campagne elettorali dei democristiani rappresentano il PCI come un partito di mostri. E fanno circolare leggende che oggi sembrano demenziali, tipo quella che i comunisti mangiano i bambini.

Gli elettori ci credono davvero? Forse no. Però vedono che con i governi della Democrazia Cristiana, arrivano i soldi dagli Stati Uniti, il boom economico e una certa tranquillità.

La rivoluzione? Sì, a qualcuno quell’idea piace. E qualcuno ci pensa ancora, nel 1964, quando un militante di estrema destra spara a Togliatti e i militanti comunisti scatenano scioperi e rivolte in tutta Italia.

Ma la maggior parte di chi vota per il PCI sono persone che vogliono più diritti, più libertà e un mondo più equo. A volte scettici nei confronti degli Stati Uniti e curiosi verso l’Unione Sovietica.

Già, l’Unione Sovietica. Che in questo periodo finanzia regolarmente il PCI e in qualche modo gli detta la linea. E i comunisti italiani devono arrampicarsi sugli specchi quando vengono fuori i crimini dello stalinismo o quando i carri armati di Mosca invadono l’Ungheria per sopprimere la rivoluzione del 56.

In quel periodo si apre un dibattito su cosa sia davvero il PCI. Un partito che lavora in Italia per i diritti dei lavoratori o la longa manus del potere sovietico in un Paese della Nato?

Queste ambiguità rendono per sempre impossibile al PCI raggiungere il centro del potere. L’elettorato italiano continua a non fidarsi granché dei comunisti. Parole d’ordine legate ai diritti dei lavoratori, stipendi più alti, maggiori libertà personali fanno presa. Solo che poi c’è tutto il resto che è difficile da digerire. E così il PCI alle elezioni nazionali non arriva mai oltre il 30% dei consensi.

In particolare, ci sono alcune regioni in cui i comunisti proprio non riescono a convincere l’elettorato. Come per esempio in Veneto o in Sicilia. Invece, nelle regioni dell’Italia centrale, come la Toscana o l’Emilia Romagna, sindaci e amministratori locali venuti dal PCI diventano la norma.

Con le rivolte giovanili del ’68, inizia un periodo in cui il PCI perde sempre più consensi. Per i ragazzi di quella generazione, tra i comunisti e i democristiani ci sono davvero poche differenze. Sono sempre gli stessi uomini di mezza età in completo grigio, che non capiscono i problemi dei giovani. Nel giro di poco tempo, nascono gruppi che contestano il PCI perché lo considerano troppo poco di sinistra. Sono gruppi radicali, estremisti, che vogliono una sola cosa: la rivoluzione.

Tra questi gruppi, alcuni scelgono la lotta armata. Il più tristemente famoso di questi è quello delle Brigate Rosse che proprio negli anni Sessanta iniziano le loro attività di rapimenti e omicidi politici.

Se da un lato, i giovani di sinistra considerano il PCI un partito ormai troppo tranquillo, molti altri non la pensano così. Gli Stati Uniti, per esempio, vedono i comunisti italiani come il fumo negli occhi.

E poi ci sono i gruppi di estrema destra, convinti dell’idea di dover fermare i comunisti a tutti i costi, e magari instaurare un regime reazionario come quelli che ci sono negli stessi anni in Spagna, in Portogallo o in Argentina.

Per tutti gli anni Settanta, il PCI si trova tra due fuochi. Da un lato lotta per i diritti dei lavoratori, ma non può accettare i metodi delle Brigate Rosse. Allo stesso tempo, deve condannare con forza il terrorismo di estrema destra, quello che vuole spaventare i cittadini con le bombe per fargli credere che l’unica alternativa sia uno Stato forte e dittatoriale.

Oltretutto, c’è il solito problema. Il rapporto con l’Unione Sovietica, che diventa sempre più difficile da spiegare all’opinione pubblica. Il socialismo dell’Europa orientale mostra il suo lato più duro e totalitario. Non può piacere agli italiani. Serve una svolta.

Arriva, quando diventa segretario del PCI Enrico Berlinguer.

Berlinguer è un uomo intelligente ed empatico, uno che ha il polso della situazione e sa cosa fare. Secondo lui, la missione dei partiti comunisti in Europa non è finita, ma deve cambiare strada. Serve un modo di portare avanti le proprie idee senza legarsi troppo all’esperienza sovietica. Una via europea al comunismo, insomma.

Il suo tentativo di fare questa cosa prende il nome di Compromesso storico. Ovvero, un patto di governo con gli arcinemici di sempre della Democrazia Cristiana. Berlinguer ci lavora a lungo, insieme al presidente della DC Aldo Moro. Un’idea che fa storcere il naso a molti e naufraga definitivamente quando le Brigate Rosse rapiscono e uccidono proprio Aldo Moro.

Per coerenza, Berlinguer non piace granché nemmeno ai sovietici. Nel 1981, durante un viaggio in Bulgaria, il segretario del PCI ha un incidente in macchina. Un incidente grave nel quale muore il suo interprete, ma da cui Berlinguer esce illeso. Le prove non ci saranno mai, ma l’idea che il KGB volesse ucciderlo gli resta in testa.

Ma l’importante è che Berlinguer fa quello che non era mai riuscito prima. Aumentare la platea del consenso elettorale verso il Partito Comunista. Non è che aumentano i comunisti in Italia, ma aumentano le persone che si fidano delle idee e della figura di Enrico Berlinguer.

Che infatti porta il partito al suo massimo risultato elettorale, prima poi di morire improvvisamente e di lasciare un grande vuoto nel popolo comunista italiano.

Berlinguer muore nel 1982, all’inizio di un decennio che cambierà per sempre la storia del mondo. In quegli anni, il socialismo reale in Europa crolla pezzo dopo pezzo.

In Italia, il dibattito è feroce. Il Partito Comunista sembra sempre più vecchio e inadatto, un relitto della storia.

L’ultimo segretario del Partito Comunista Italiano lo abbiamo conosciuto all’inizio di questa storia. Si chiama Achille Occhetto, e prova a gestire l’onda del cambiamento. Un’onda che però lo colpisce in piena faccia.

Dopo le sue dichiarazioni a Bologna sulla possibilità che il PCI cambi nome, inizia un processo per farlo davvero. Un processo complesso, doloroso, che spacca in due il partito, mette gli uni contro gli altri compagni, amici, famiglie.

Perché ci sono quelli convinti che cambiare il nome sia il destino necessario. E poi gli altri, che puntano i piedi, perché di rinunciare alla propria identità non sono convinti.

Alla fine Occhetto vince la sua battaglia. Il PCI cambierà nome e simbolo. Diventa il PDS, Partito democratico della sinistra, e il suo simbolo storico -la falce e il martello- lascia il posto a una quercia.

I contrari a quel cambio di nome fonderanno altri partiti, molto più piccoli, e che ancora oggi lottano per una legittimità politica che appare sempre più difficile.

Insomma, chi sono stati e chi sono i comunisti italiani? Per le persone che hanno vissuto in Paesi governati dal socialismo reale, è difficile crederlo, ma i comunisti italiani hanno quasi sempre vissuto con un’idea di profonda libertà. Hanno combattuto il fascismo perché opprimeva i diritti, e hanno sognato un mondo più giusto.

Sono stati intellettuali, politici, uomini e donne normali. Alcuni religiosi, altri atei, gente di città e gente di campagna. Persone che hanno trovato un’ideale in cui credere, che lo hanno sostenuto, ma lo hanno anche messo in discussione.

Anche per questo motivo, oggi, in Italia i simboli del comunismo non sono vietati e non fanno paura. Non a tutti, almeno. Sono i simboli di una storia che ha fallito i suoi obiettivi, ma ha avuto una base sincera.

Il cantante e poeta Giorgio Gaber ha scritto una volta una canzone che si intitola proprio Qualcuno era comunista. Dove elenca tanti motivi, seri o buffi, che hanno nutrito i comunisti italiani.

Nel bene e nel male, con ingenua sincerità o con malizia, Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri.

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