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#61 – Il grande Torino

Trascrizione dal podcast Salvatore racconta, episodio pubblicato il 7 maggio 2022.

Distribuito con licenza Creative Commons CC-BY 4.0 non commerciale.

Per ascoltarlo, clicca qui.

Il Grande Torino - Salvatore racconta Podcast in italiano per stranieri

 

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Il 4 maggio del 1949 a Torino è un mercoledì. Nel pomeriggio, piove, c’è nebbia, tira vento.

Pochi hanno voglia di uscire.

Tra quei pochi, un ragazzino. Si chiama Giorgio Tosatti, ha dodici anni ed è figlio di un cronista sportivo della Gazzetta del Popolo.

Giorgio quel pomeriggio corre in redazione perché aspetta il ritorno di suo padre. In aereo, da Lisbona.

Nelle stesse ore, nella Basilica di Superga, su una collina alla periferia di Torino, un sacerdote che si chiama padre Tancredi legge un libro di preghiere. Del resto, con quel tempaccio, non c’è molto altro da fare.

Intorno alle cinque, padre Tancredi è costretto a chiudere il suo libro, interrotto da un rumore assordante. Un tonfo che arriva dalla parete posteriore della Basilica.

Esce allarmato a vedere, e si trova di fronte a uno spettacolo che lo lascia ammutolito.

Un aereo si è schiantato contro il muro della chiesa.

Padre Tancredi ha l’istinto di fare qualcosa. Ma capisce subito che c’è poco da fare. Al massimo, recitare una preghiera.

È chiaro che non ci sono superstiti. Tutti i passeggeri e tutto l’equipaggio sono morti.

Alla torre di controllo dell’aeroporto, mettono insieme i dati e fanno due più due. L’aereo caduto a Superga è quello di cui aspettavano l’atterraggio quel pomeriggio. Quello in arrivo da Lisbona. Quello che il piccolo Giorgio Tosatti aspettava. E con lui, tutta la città.

Quando i soccorritori arrivano a Superga, ne hanno la conferma. Mentre estraggono i corpi senza vita dai resti dell’aereo, trovano oggetti che mettono nero su bianco la verità.

Calzoncini, calzettoni, palloni, e soprattutto maglie da calcio. Di un colore rosso scuro intenso. Un colore che tutti a Torino conoscono. Il colore granata.

L’aereo che si è schiantato a Superga è quello che stava riportando a casa da Lisbona i giocatori del Torino.

La squadra che aveva dominato il campionato di calcio degli ultimi anni, tenendo testa a tutte le rivali.

Assieme a loro, sono morti dirigenti, allenatore e giornalisti al seguito. Compreso Renato Tosatti, il padre del piccolo Giorgio. Che lo viene a sapere in un momento di innocente brutalità dal portiere del palazzo che ospita il giornale.

Ma come, non lo sai? L’aereo è caduto. Sono tutti morti.

La notizia è arrivata in centro a Torino in un batter d’occhio. E si è diffusa attraverso il passaparola. Sussurrata, gridata, telegrafata.

In quel pomeriggio di pioggia e di lacrime, con la strage di Superga, è finita per sempre la storia del Grande Torino.

Il Grande Torino era, naturalmente, il Torino. La stessa squadra che conosciamo oggi. E che all’epoca si era guadagnata il nome di Grande sul campo. Un nome riconosciuto, con entusiasmo o a malincuore, da tutti. Tifosi, giornalisti, squadre rivali.

Perché era una squadra fortissima, praticamente imbattibile. Quando le altre squadre dovevano giocare contro il Torino, già prima di scendere in campo sapevano di essere spacciate.

Com’era successo? Il Torino non era certo la squadra con il padrone più ricco e nemmeno quella con la tradizione migliore. Aveva però avuto una grande fortuna, poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. Nel 1939 era diventato presidente della squadra un imprenditore locale e tifoso del Toro sin da quando era bambino. Si chiamava Ferruccio Novo.

In quel periodo, il Torino non era in grado di competere con i cugini e rivali della Juventus, già allora di proprietà della famiglia Agnelli. Quelli della Fiat.

In compenso, Ferruccio Novo mette sul piatto le sue migliori qualità. Il suo amore sincero per il Torino e la voglia di imparare e migliorarsi.

Il modello è proprio quello della Juventus. Moderno, imprenditoriale. Anche se con mezzi minori. Nel giro di qualche anno, mette insieme una squadra forte e competitiva.

Il campionato 1942/43 si gioca in un’atmosfera surreale, con la guerra in corso e la paura che delle bombe cadano sulle città. Ma il governo fascista è irremovibile. Per dare un segnale di sicurezza al popolo italiano, il campionato deve continuare. Sarà l’ultimo prima della fine del fascismo, della guerra civile e di una pausa che per il calcio durerà due anni.

Quel campionato, comunque, lo vince proprio il Torino. Con una squadra costruita dall’amore di Ferruccio Novo e dalla competenza calcistica di un uomo che però non si era potuto godere quel successo.

Perché si chiamava Erno Erbstein, era ungherese. Per la precisione, un ebreo ungherese. Anche se all’epoca non metteva piede in una sinagoga da chissà quanto tempo, nell’Italia fascista per lui le regole erano chiare.  Anche se è un genio del pallone, deve andarsene. Dopo avere piantato i semi del Grande Torino, Erbstein fa le valigie e torna in Ungheria.

Dove non lo aspetta certo una situazione migliore. Anzi, passa letteralmente dalla padella alla brace. Perché Budapest viene presto invasa dai nazisti e la famiglia Erbstein passa anni da incubo, salvandosi per miracolo da un destino che sembrava scritto. La morte in un campo di sterminio.

Alla fine della guerra, l’Italia prova a tornare alla normalità. C’è da rimboccarsi le maniche per ricostruire il Paese, ma la gente ha bisogno di sentire quella normalità anche nelle cose belle. E cosa c’è di più bello, dopo una settimana a sgobbare, della partita di calcio la domenica? Nell’autunno del ’45, quando ancora mancano strade, ferrovie e scuole, alla bell’e meglio ricomincia il campionato italiano di calcio.

Il Torino è la squadra campione in carica. I calciatori sono quasi tutti vivi. Grazie a Mussolini che gli ha risparmiato il fronte perché li riteneva più utili sul campo, per la propaganda. È vivo anche il presidente Ferruccio Novo che, come prima cosa, prova a contattare il suo vecchio consigliere Erno Erbstein. Quando scopre che è vivo, gli propone subito di tornare a Torino. E lui non ci pensa due volte.

Così ritrova i suoi amati giocatori. È praticamente tutto come prima, con solo un paio di differenze. Sulle maglie granata adesso c’è cucito lo scudetto, il simbolo dei campioni d’Italia. E poi ci sono dei giocatori nuovi, in particolare un paio che Erbstein ricorda bene perché erano la bestia nera del suo Torino. Due avversari fortissimi che nel frattempo sono diventati granata.

È tutto pronto per ricominciare. E per scrivere le prime incredibili pagine della storia del Grande Torino.

Quando il campionato riparte, il Torino si presenta in grande spolvero. I giocatori granata sono ancora i più forti, e ci tengono a dimostrarlo, con un calcio spettacolare, con molte partite che finiscono in goleada. Per la vittoria finale c’è un testa a testa tra il Torino e i cugini della Juventus, ma all’ultima giornata i bianconeri pareggiano 1 a 1 a Napoli, mentre i granata travolgono il Livorno 9 a 1.

È ufficiale. Il Torino è nuovamente campione d’Italia.

I calciatori del Toro, presi singolarmente, forse non sono i più forti in assoluto. Ma insieme funzionano come un orologio svizzero. È il frutto di una squadra costruita per vincere, e si vede.

Da quel momento, nel calcio italiano inizia un monologo a tinte granata.

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Nel campionato successivo, stagione 46-47, il Toro continua a infliggere sonore sconfitte a tutti gli avversari. Conquistando lo scudetto ancora una volta.

Il dominio del Torino si riflette anche nella nazionale. Il commissario tecnico degli azzurri, Vittorio Pozzo, ha un compito facile in quel periodo. Per scegliere i giocatori dell’Italia, basta prendere quelli del Torino e rimetterli in campo con le maglie azzurre al posto di quelle granata. Va letteralmente così.

Nel 1947, si gioca un’amichevole tra Italia e Ungheria. Degli undici azzurri in campo, dieci sono calciatori del Torino. Il segno definitivo del dominio granata sul calcio italiano. L’unico estraneo è il portiere, Lucidio Sentimenti, estremo difensore della Juventus.

In breve tempo, si fa strada l’idea che il Torino sia semplicemente imbattibile. Sembra che i suoi giocatori in campo possano fare il bello e il cattivo tempo. E non è che sembra soltanto. È davvero così.

Soprattutto nelle partite in casa, il Torino dà vita a quello che diventerà famoso come il quarto d’ora granata.

Consapevoli della loro superiorità, i calciatori del Torino si divertivano a gestire il ritmo della partita a loro piacimento. Iniziavano giocando a un ritmo lento e tranquillo, senza strafare. I tifosi lo sapevano e aspettavano il momento della carica. Anzi, lo decidevano loro.

C’era un tifoso, uno che di mestiere faceva il ferroviere, e che andava allo stadio sempre con una tromba. Era suo compito dare il segnale. Quando i calciatori sentivano suonare la sua tromba, capivano che era il momento di fare sul serio.

Allo squillo della tromba, i giocatori granata aumentavano improvvisamente la velocità della partita, giocavano a un ritmo indemoniato per quindici o venti minuti al massimo in cui segnavano goal a profusione, mettevano in cassaforte il risultato e poi ricominciavano a giocare a ritmo basso e rilassato. Per i tifosi, era un momento di estasi.

Chi erano i tifosi del Torino in quel periodo? Beh, quando una squadra vince così tanto e in modo così spettacolare, i tifosi sono tanti e arrivano da tanti ambienti. Fatto sta che lo zoccolo duro della tifoseria granata in quel periodo è fatto di operai, ferrovieri, muratori. Insomma, del proletariato di Torino, opposto alla Juventus della famiglia Agnelli considerata la squadra dei padroni.

È un fenomeno sociale destinato a cambiare nei decenni successivi, con l’arrivo alla Fiat di molti operai di origine meridionale, che trovano nella Juventus un simbolo nazionale in cui non sentirsi soltanto emigrati. Il Torino invece diventerà pian piano la squadra preferita dai torinesi nati e cresciuti in città, e molto orgogliosi di esserlo.

Torniamo però alla nostra storia. Con i suoi calciatori di primo livello e i quarti d’ora granata, il Torino vince in scioltezza anche il campionato del 1947/48, il quarto di fila. Nella stagione successiva, è quasi sicuro per tutti che vincerà anche il quinto.

In effetti nella prima metà della stagione, i segnali sono chiarissimi. Il Torino è ancora la squadra più forte e nessuna delle altre sembra pronta a spodestarla. Fino a quando, amaramente, non arriva la sorte a metterci lo zampino.

Il campionato 48/49 inizia nuovamente all’insegna del Torino che, a metà stagione, è già praticamente sicuro di vincere. Nel febbraio del 1949, il capitano dell’Italia, Valentino Mazzola riceve una proposta dal capitano del Portogallo, Ferreira.

Ferreira propone a Mazzola un’amichevole tra le loro squadre di club. Il Torino contro il Benfica. A maggio. Che ne dice Mazzola? Dice che l’idea gli piace e dà la sua parola.

Il presidente del Toro, Ferruccio Novo, storce un po’ il naso. Ha molto rispetto per Mazzola, ma non spetta a lui programmare le amichevoli della squadra. Soprattutto senza averne parlato prima con il presidente, e soprattutto a stagione in corso.

Così trovano un compromesso. Se i granata a maggio avranno già abbastanza punti in campionato da essere praticamente sicuri di vincere, allora potranno partire per Lisbona.

Mazzola e i suoi compagni non tradiscono le aspettative. All’inizio di maggio, quando mancano ancora diverse giornate alla fine del campionato, il risultato è al sicuro. La squadra può partire.

Sull’aereo che porta il Grande Torino a Lisbona, oltre ai giocatori, ci sono anche alcuni dirigenti e giornalisti. Ferruccio Novo, il presidente, non parte con la squadra perché ha l’influenza.

Sul campo di Lisbona, davanti a quarantamila spettatori, si gioca Benfica-Torino e i giocatori granata danno spettacolo. Al triplice fischio, il risultato è 4-3 per il Benfica. Ma non importa a nessuno. Quella non è una partita, è una festa.

Nessuno immagina cosa succederà il giorno dopo.

Il giorno dopo è proprio il 4 maggio, da cui siamo partiti. Il Grande Torino sale sull’aereo che li dovrebbe riportare a Torino.

Su Torino però c’è la nebbia, le nuvole sono basse e la visibilità è poca.

Cos’è successo con esattezza? Non lo sapremo mai. Fatto sta che i piloti pensano di avvicinarsi alla pista di atterraggio, e invece colpiscono in pieno il muro posteriore della Basilica di Superga.

L’impatto è devastante. Quando Padre Tancredi esce a vedere, non c’è più niente da fare. Le 31 persone a bordo dell’aereo sono tutte morte. È la fine del Grande Torino.

I calciatori del Torino, agli occhi della gente normale, erano divinità. Capaci di fare cose incredibili sul campo con cui dimenticare le difficoltà e la fatica della vita di tutti i giorni.

La tragedia di Superga come il palloncino di un bambino che scoppia all’improvviso. Causa stupore, rabbia, tristezza e fa scoprire al popolo italiano la consapevolezza che -anche se la guerra è finita- di cose brutte ce ne saranno ancora e ancora.

L’Italia non ha dimenticato quella lezione. Al funerale degli eroi del Grande Torino si presentano centinaia di migliaia di persone. Ai mondiali di calcio del 1950, che si giocano in Brasile, gli azzurri si recano in nave. Di prendere un aereo non ha voglia proprio nessuno.

Ancora oggi, a più di settant’anni da quella data, ogni anno il 4 maggio il mondo del calcio ricorda la tragedia di Superga e la fine del Grande Torino. Ogni anno quel giorno a Superga, tifosi, calciatori e dirigenti granata commemorano l’evento più tragico della storia dello sport italiano.

A chiedersi cosa sarebbe successo se non ci fosse stata Superga. Quale sarebbe stato il destino di quella squadra imbattibile.

Come recita una frase scritta sotto una foto che immortalava i campioni, “solo il fato li vinse”.

Soltanto il destino crudele ha fermato l’incredibile storia sportiva e umana del Grande Torino.

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