#58 – La breccia di Porta Pia. Verso Roma capitale
Trascrizione dal podcast Salvatore racconta, episodio pubblicato il 25 giugno 2022.
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Roma è una città unica al mondo. Lo sappiamo.
Per i suoi monumenti, per la sua storia, per il carattere delle persone che ci abitano.
Ma anche per un elemento che deriva da tutto questo.
A Roma può capitare di passeggiare in centro, magari mangiando un gelato o chiacchierando con gli amici, e di sconfinare senza accorgersene nel territorio di un altro Stato.
Naturalmente, parlo della Città del Vaticano. Il piccolissimo regno dove il tempo si è fermato e il Papa della Chiesa cattolica è ancora formalmente il Capo dello Stato.
È uno Stato che si vede poco, dove si può entrare anche senza saperlo, e che molti turisti e curiosi attraversano e forse nemmeno immaginano che per un po’ sono usciti dall’Italia.
Eppure, nonostante la sua apparente inconsistenza, la Città del Vaticano è uno Stato pesante, presente, con una storia complessa alle spalle.
Perché è nato dalle ceneri di un potere dominante e antichissimo, che era stato cancellato dalla storia per mezzo secolo, e che è tornato per volere politico di un uomo che oggi in Italia non è certo un eroe.
L’inizio della fine del potere politico del Papa su Roma era arrivato in un giorno di fine estate.
Per la precisione, proprio l’ultimo giorno d’estate, il 20 settembre. L’anno era il 1870.
Quel giorno, le truppe dell’esercito del regno d’Italia, comandate dal generale Raffaele Cadorna, entrano a Roma per conquistarla. Lo fanno da una delle porte della città che all’epoca era secondaria. Ma che oggi ha un significato simbolico sconfinato.
Quel giorno si compie la breccia di Porta Pia. Una grande storia finisce. Un’altra è pronta a cominciare.
Cala il sipario sulla Roma dei Papi, si accendono le luci su Roma capitale d’Italia.
Forse è necessario fare un po’ di chiarezza sui motivi e il contesto di questa storia.
In che senso l’esercito italiano entra a Roma per conquistarla? Ma Roma non è Italia?
Certo, oggi lo è. Ed è una cosa così naturale da dire e da pensare, che ci sembra un fatto eterno e quasi scontato.
La storia però non è fatta di cose eterne e scontate, anzi. È piena di sorprese, capovolgimenti e cose che erano normali prima e oggi sembrano inimmaginabili.
Facciamo dunque qualche passo indietro, agli anni in cui ancora l’Italia era solo un bel concetto, un’idea nobile, ma non esisteva sulle carte geografiche come Stato unitario.
Nella metà del XIX secolo, intellettuali e politici parlavano spesso dell’idea di unire l’Italia. Erano consapevoli del fatto di essere un unico popolo diviso in tanti Stati e che questo costituiva una debolezza nei confronti delle altre potenze europee. Unire l’Italia, insomma, sembrava una necessità storica.
Anche se le idee per realizzarla erano varie, contraddittorie e spesso effimere.
Fino al 1848. Un anno di rivoluzioni e rivolte in tutta Europa che non risparmiano gli Stati e staterelli in cui è divisa l’Italia.
In quel contesto, dopo anni di teorie ed elucubrazioni, emerge l’azione. C’è uno Stato in Italia che ha l’energia, i mezzi e gli uomini giusti per portare avanti l’unificazione. È il Regno di Sardegna che, per una strana storia di dinastie e titoli, in realtà ha la sua capitale a Torino.
E sono piemontesi i tre uomini chiave del Risorgimento italiano. Il Re di Sardegna, Vittorio Emanuele II di Savoia. Il suo primo ministro Camillo Benso Conte di Cavour. E il suo grande condottiero, amato e odiato, ammirato e temuto, il generale Giuseppe Garibaldi.
I tre si dividono i ruoli. Da un lato il re Vittorio e Cavour tessono trame diplomatiche e combattono guerre ufficiali con cui liberano il nord Italia dal dominio dell’impero austriaco. Nel giro di quindici anni, prima Milano e poi Venezia si uniscono al Regno d’Italia.
E nel frattempo Garibaldi, forte del suo carisma e della sua esperienza da condottiero, trascina migliaia di volontari dalla Sicilia all’Emilia Romagna per portare i piccoli Stati dell’Italia centro-meridionale sotto il controllo di Vittorio Emanuele II.
Non tutti quei piccoli Stati. Ce n’è uno, al centro, particolarmente complicato da annettere. Anche se è un regno praticamente senza esercito, è il più difficile da conquistare.
È lo Stato della Chiesa, il regno del Papa re.
E non si tocca.
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Nel 1861, Vittorio Emanuele II si presenta al mondo come Re d’Italia. Solo che per dieci anni circa, il Regno d’Italia vive con un grosso buco al centro.
Sulla città degli antichi cesari, resta saldo al potere Papa Pio IX. Non ha un esercito vero e proprio. Ma ha l’autorità morale che gli viene dall’essere Papa. E soprattutto ha un potente alleato. La Francia. Che non esita a mandare a Roma migliaia di soldati.
Fino a che Napoleone III, all’epoca imperatore francese, non commette un errore di valutazione. Non capisce che gli equilibri in Europa stanno cambiando e inizia una guerra contro la Prussia. Un passo falso, che la Francia pagherà caro. Con una sconfitta durissima e feroce.
Per l’Italia invece è un’occasione ghiottissima, da cogliere al volo. Perché Napoleone, occupato a resistere ai prussiani, lascia Roma sguarnita. A Vittorio Emanuele II e al governo italiano basta un passo per completare l’opera di unificazione.
Arriviamo al 1870.
Ma nel frattempo a Roma che succede? Come vive la caput mundi questo periodo di rivolte e rivoluzioni? Che ruolo ha la città antica per eccellenza nel mondo che corre verso la modernità?
Quando le rivolte hanno fatto tremare l’Europa, Roma non è rimasta a guardare. Anzi, rivoluzionari romani hanno provato più volte a ribaltare il potere del Papa e una volta ci sono anche riusciti. Ma poi il Papa è tornato al suo posto. Come se nulla fosse successo.
A consolidare, ancora una volta, un’idea che in Europa hanno in molti. E cioè che Roma è destinata a restare lì dov’è, orgogliosamente immobile mentre nel mondo scoppia la modernità.
I quadri dell’epoca in effetti ritraggono Roma come una città sonnacchiosa e contadina. Greggi di pecore pascolano sotto l’arco di Costantino e buoi brucano l’erba nei fori imperiali come se niente fosse.
La modernità appartiene agli altri, non a Roma. Che, per volere del Papa che la governa, deve restare così com’è. Questa moda rivoluzionaria passerà prima o poi, mentre Roma è eterna.
Papa Pio IX ne è sicuro ed è deciso a non arretrare nemmeno di un millimetro. Anche quando ormai le truppe del Regno d’Italia marciano verso Roma alla luce del sole.
Senza i francesi a difenderla, la capitale del Papa può contare solo sulle sue poche forze. Una guarnigione di pochi uomini del tutto inadeguata come numeri e come equipaggiamento. Se le truppe italiane dovessero affrontarli in campo aperto, li spazzerebbero via senza problemi.
Viittorio Emanuele II però non vuole fare guerra aperta al Papa e chiede al suo generale di andarci con i piedi di piombo. È il re d’Italia, consapevole del suo ruolo, ma è anche l’esponente di una dinastia profondamente cattolica, mettersi contro il Papa non è una cosa che si può fare alla leggera.
Così all’inizio cerca di arrivare ai suoi obiettivi per via diplomatica.
Dicevamo che Roma è una città conservatrice e che resiste alla modernità a tutti i costi. Ed è vero. Ma questo non significa che manchino forze rivoluzionarie anche lì. Uomini che parlano di cose aberranti tanto per il Papa quanto per Vittorio Emanuele. Libertà, democrazia, repubblica.
Così Vittorio prova a convincere il Papa che l’invasione sarebbe per il suo bene. Il Regno d’Italia sarebbe più solido militarmente e politicamente per spegnere subito gli entusiasmi rivoluzionari dei repubblicani. Conquistare Roma sarebbe un modo per salvarla.
Bel tentativo, Vittorio. Ma Papa Pio IX non è nato ieri. È un politico abile e un uomo molto consapevole del suo ruolo. Non potrebbe mai accettare questa messinscena. Gli italiani vogliono Roma? Se la prendano con la forza, se ne hanno il coraggio.
A quel punto a Vittorio non resta molto da fare. Dopo essersi assicurato che quel fumantino di Garibaldi è a casa sua in Sardegna dove non può causare problemi, dà l’ordine ai suoi generali di entrare a Roma. Sempre con la raccomandazione però di trattare il Papa con i guanti di velluto.
Per questo Badoglio decide di provare a fare breccia da una delle porte secondarie di Roma. Una abbastanza lontana dal colle vaticano e da San Pietro, i luoghi più simbolici del potere papale.
Si consuma così, in modo piuttosto veloce e quasi indolore, uno dei momenti simbolo della storia italiana. La breccia di Porta Pia. Ovvero, i soldati del Regno d’Italia che sfondano la porta ed entrano a Roma. La piccola guarnigione di volontari che difendono il Papa si arrende. Quasi non c’è battaglia.
Il Papa ha ordinato di non combattere. Non avrebbe senso, non ci sono speranze, non c’è motivo di spargere sangue inutile.
Paolo IX si chiude sul Colle vaticano, si dichiara prigioniero politico. Il 20 settembre del 1870 Roma è italiana.
La cosa è da ufficializzare, e si fa con il metodo preferito di quell’epoca.
Un plebiscito. Romani, volete unirvi al regno d’Italia? Secondo i risultati, non si sa quanto affidabili, a rispondere in no sono soltanto 46 persone. Ma è anche vero che molti cattolici fedeli al Papa decidono semplicemente di non partecipare al voto. Iniziando una resistenza passiva che durerà a lungo.
Perché Papa Pio IX si è arreso, ma questo non significa che abbia deciso di fare finta di niente. Lancia una scomunica contro gli invasori e impone ai cattolici italiani di non partecipare alla vita politica del Regno che lui considera illegittimo e invasore.
Un anno dopo, nel 1871, Roma diventa finalmente capitale italiana. Prende il posto di Torino, antica capitale della dinastia Savoia, e Firenze, scelta provvisoriamente dopo l’Unità. Diventa, lentamente, la città che conosciamo oggi.
La Roma dei palazzi della politica, della sede del governo, dei ministeri.
Il Palazzo del Quirinale, che sorge sull’omonimo colle, passa dall’essere residenza dei Papi a residenza del Re d’Italia. E oggi continua la sua tradizione, ospitando i Presidenti della Repubblica italiana.
Dopo Pio IX si alternano diversi Papi sul trono di San Pietro. Ben quattro in cinquant’anni.
Tutti, più o meno, hanno mantenuto la linea del loro predecessore. Quella di considerarsi prigionieri in uno Stato nemico, ma senza per questo rinunciare al loro ruolo di guide religiose e spirituali per tutto il mondo cattolico.
La durezza nel dividere nettamente i cattolici dalla vita pubblica lentamente si ammorbidisce. Fino al punto in cui arriva sulla scena un prete siciliano, che si chiama Don Luigi Sturzo, un uomo che capisce che i cattolici non possono stare fuori dalla politica mentre la politica diventa delle masse. Il rischio è che il popolo senza guida si affidi al crescente partito socialista.
Fino ad arrivare al 1929. In un’Italia già molto diversa da quella che si era presa Roma con la forza. È l’Italia del fascismo e di Benito Mussolini, uno che ha tutto l’interesse a prendersi la benevolenza del Papa e del mondo cattolico. È lui, assieme al re Vittorio Emanuele III, che si presenta a San Giovanni in Laterano per firmare con Papa Pio XI, i Patti Lateranensi.
Per offrire autonomia al Vescovo di Roma, disegnano su due piedi i confini di un micro-stato. Che sarà delineato dalle antiche mura leonine e comprenderà, naturalmente, anche la Basilica di San Pietro.
Nasce così la Città del Vaticano, quella che conosciamo ancora oggi. Che anche la repubblica italiana, nata come reazione al fascismo, ha deciso di mantenere.
Oggi Porta Pia non ricorda per nulla un confine. Roma è cresciuta così tanto che quella zona lì fa parte del centro a pieno titolo. Lì davanti, immobile di fronte a migliaia di automobilisti distratti, c’è un monumento in bronzo che raffigura un bersagliere, un tipico soldato dell’epoca, che con il fucile in una mano e una tromba nell’altra è pronto a fare breccia su Porta Pia.
Per portare nella giovane storia del Regno d’Italia, la storia millenaria di Roma.
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