#55 – Lo spaghetti western
Trascrizione dal podcast Salvatore racconta, episodio pubblicato il 26 marzo 2022.
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Due pistoleri armati si incontrano sullo sfondo di una città deserta e polverosa. Uno di loro imbraccia un fucile, l’altro una rivoltella.
È la fine di una specie di sfida in cui tutti e due hanno recuperato le proprie armi dal terreno. Per dimostrare chi è più veloce.
Questo è il loro secondo incontro. Quando si sono incontrati per la prima volta, quello con il fucile ha detto.
“Quando un uomo con il fucile incontra un uomo con la pistola, l’uomo con la pistola è un uomo morto”.
Ne era sicuro, ma si sbagliava.
Quella che ti ho appena descritto è la scena di un grande film.
Un western. Tra tutti i generi cinematografici, forse il più americano di tutti.
Almeno, fino a un certo punto.
L’uomo con la pistola in effetti è interpretato da un attore nato a San Francisco, ancora poco noto al grande pubblico. Un certo Clint Eastwood.
Il resto però di americano ha poco o niente.
Il villaggio polveroso del New Mexico sullo sfondo in realtà si trova in Andalusia.
E l’uomo con il fucile? Lo interpreta un attore nato a Milano: Gian Maria Volonté.
Dietro la macchina da presa, il regista è uno che ha presentato il film negli Stati Uniti con il nome d’arte di Bob Robertson. In realtà è romano, e oggi è una pietra miliare del cinema italiano. Sergio Leone.
Per finire, la colonna sonora. I titoli di testa la attribuiscono a un certo Dan Savio. Un altro pseudonimo di un altro romano diventato una leggenda nel suo campo. Ennio Morricone.
Probabilmente lo hai già capito, il film di cui parliamo è Per un pugno di dollari. Oggi ormai un classico del western.
E in particolare, di un sottogenere del western. Arrivato dall’Europa, e in particolare dall’Italia, a rivoluzionare un tipo di film che in America ormai era arrivato alla frutta.
Gli americani, all’inizio, lo hanno guardato con scetticismo e supponenza. Gli europei, e gli italiani in particolare, vogliono insegnare a noi come fare i western?
A quel sottogenere, gli americani hanno dato un nome all’inizio un po’ dispregiativo e stereotipico. Poi però, pian piano, se ne sono innamorati.
E quel nome ha cambiato valore.
Oggi nessuno tratta più con scherno il western all’italiana. Nessuno ride degli spaghetti western.
Praterie, cavalli, pistoleri, indiani. Spazi infiniti da riempire solo con la fantasia.
Il vecchio e selvaggio west per molti anni è stato alla base della simbologia americana. Un’epopea di libertà e coraggio da raccontare per capire sé stessi. In questo modo ha ispirato una vera e propria cultura fatta di libri, giornaletti, fotoromanzi e soprattutto film.
Il successo dei film western esplode prima della seconda guerra mondiale. Soprattutto intorno a due nomi. Quello di un regista, John Ford, e quello di un grande interprete, John Wayne.
Loro due gettano le basi della fortuna di questo genere cinematografico. C’è quasi sempre un cowboy solitario, un duro dal cuore tenero in cerca di vendetta. E poi: uno sceriffo che segue più la morale che la legge; un medico di campagna, di solito sempre rubizzo e con una bottiglia di bourbon in mano; una ex prostituta che sogna una vita normale. E infine i nativi americani. Che nel film si chiamano sempre indiani e sono quasi sempre feroci e pericolosi, i cattivi contro cui l’eroe e i pionieri combattono la loro battaglia di libertà.
Uno schema abbastanza rigido che ha prodotto dei veri e propri capolavori, ma che lentamente ha esaurito la sua energia creativa. A metà degli anni Sessanta, il western è già praticamente finito in soffitta.
Almeno, negli Stati Uniti. Perché in Europa invece, l’onda lunga del western ha preso piede molto facilmente. Gli europei di allora non erano particolarmente interessati all’epopea della conquista americana, ma trovavano affascinanti le storie e anche le ambientazioni, così diverse rispetto a quello che si vedeva normalmente in Europa.
Un grande appassionato di western era anche Sergio Leone. Oggi lo conosciamo bene, ma a metà degli anni Sessanta doveva ancora farsi un nome. Lavorava a Cinecittà da tempo. Seguendo la moda del periodo, si era specializzato in peplum, ovvero film ambientati nell’antica Grecia, nell’antica Roma o ispirati da temi della Bibbia. Un genere che in quegli anni andava per la maggiore. Basti pensare al monumentale Quo Vadis diretto da Mervin LeRoy e ispirato all’omonimo romanzo del polacco Henryk Sienkiewicz.
Leone stava proprio lavorando all’ennesimo peplum quando gli è venuta in mente l’idea per un western. Aveva visto al cinema La sfida del samurai, film del geniale regista giapponese Akira Kurosawa, al centro del quale c’era un samurai solitario finito in mezzo alla guerra tra due potenti famiglie.
Leone era convinto di poter ricalcare quell’idea sullo sfondo del west americano.
Non era un’idea campata in aria. Altri registi europei avevano già provato in passato a produrre dei western in Europa, scimmiottando lo stile dei classici. Si trattava però spesso di film di qualità modesta, fatti con pochi soldi, poca attenzione ai dettagli e praticamente niente di originale.
Leone è sicuro della sua idea ed è un perfezionista, ma per trovare un produttore che lo voglia ascoltare deve fare il giro delle sette chiese. Ha la fama di essere un regista pignolo, confusionario e che spende un mucchio di soldi. Alla fine Leone trova un produttore, la Jolly Film, che ha già in programma la produzione di un western all’italiana e che gli garantisce il minimo indispensabile. Pochissimi soldi, costumi e attori riciclati da un altro loro film, e pure il compositore per la colonna sonora. Un certo… Ennio Morricone.
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Quando Leone lo incontra, si ricorda di lui. Che coincidenza, andavano a scuola assieme da bambini. All’inizio, la collaborazione non funziona granché, Leone e Morricone fanno fuoco e fiamme, ma il risultato finale è il capolavoro che conosciamo.
Come dicevamo all’inizio, il cast di Per un pugno di dollari comprende attori italiani e americani. Il ruolo del protagonista spetta a Clint Eastwood, all’epoca ancora poco noto al pubblico e scettico all’idea di partecipare a un western girato in Spagna da un regista italiano. Dopo avere letto la sceneggiatura, però, si convince. Capisce che Sergio Leone sa il fatto suo e che quello che ha in mente non è una parodia farsesca, ma un prodotto rivoluzionario.
Il protagonista del film, tanto per cominciare, non è un buono. E non è nemmeno un cattivo. È un cinico solitario che si trova in mezzo a una guerra che non lo riguarda, e decide semplicemente di guadagnarci quello che può facendo il doppio gioco. Rispetto ai western classici, dove la dicotomia tra buoni e cattivi era sempre abbastanza chiara, questa è la prima sorpresa.
E non è l’unica. Sergio Leone non ha intenzione di proporre una minestra riscaldata, ma qualcosa che sorprenda e appassioni il pubblico. Scrive, e poi dirige, un film dove si spara molto e si uccide anche senza motivo. Uomini duri, sporchi, che parlano il meno possibile e vivono in un mondo duro e senza leggi, fatto di desolazione, povertà e crudeltà. Niente a che vedere con il west del sogno americano, fatto di terre da conquistare e desideri da realizzare.
E poi c’è la regia. Tagli veloci. Colpi di scena. E soprattutto il marchio di fabbrica di Sergio Leone: i primi piani. La camera che indugia sui volti dei protagonisti, racconta la tensione, la paura, la spavalderia. La durezza di vivere nel west.
Quando il film esce, a grande fatica per le enormi limitazioni finanziarie, è un successo. Gli stessi americani, che hanno inventato il western, non avevano mai visto nulla del genere. Un film senza indiani, senza buoni né cattivi, e dove il west non è una terra di speranza e opportunità, ma una frontiera dura dove sopravvive solo chi ha più pelo sullo stomaco.
E così lo spaghetti western passa dall’essere una caricatura a basso costo dei film americani a una vera e propria rivoluzione del genere. Che così torna di moda dopo anni di oblio.
Serviva Sergio Leone per ridare vita al western? Probabilmente sì. Nella cultura americana di allora, l’idea del far west era idealizzata e cristallizzata perché era alla base dell’identità della nazione. I cow boy buoni e coraggiosi che combattono gli indiani cattivi e selvaggi erano il simbolo del grande sogno di espansione americano ed era difficile mettere in discussione tutto questo.
Sergio Leone, e gli altri registi di western europei, non avevano questo problema. Non c’era niente di sacro per loro in quella rappresentazione, nulla che fosse intoccabile.
Con l’arrivo nelle sale di Per un pugno di dollari, il western smette di essere una favola per adulti e diventa vero e proprio cinema esistenziale.
Il successo di Per un pugno di dollari è talmente grande che dà il via a una trilogia, diventata famosa come “la trilogia del dollaro”. Gli altri due film sono Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto e il cattivo. I fondi a disposizione crescono di volta in volta, il che permette di migliorare alcune cose, ma restano dei punti fermi. Ovviamente tra questi la regia di Sergio Leone e le musiche di Ennio Morricone. Da quel momento in poi, un binomio inseparabile.
Va detto che Sergio Leone non predica nel deserto. Assieme a lui ci sono stati altri grandissimi registi italiani del genere. Uno fra tutti, Sergio Corbucci, che nel ’66 ha diretto un film intitolato Django.
Quello che poi ha rivisitato, a modo suo, un grandissimo fan degli spaghetti western chiamato Quentin Tarantino.
Il successo dello spaghetti western è stato talmente grande da influenzare i registi americani, all’inizio molto scettici. Nel nuovo western americano, infatti, cambiano molti archetipi. A partire da quello che è una ferita aperta della storia a stelle e strisce. Il ruolo dei nativi americani. Che nel western classico erano sempre selvaggi e brutali, per giustificare la conquista fatta ai loro danni.
La visione distaccata dello spaghetti western ha permesso a spettatori e registi americani di guardare le cose più in prospettiva e di cambiare, finalmente, la visione ingiusta delle popolazioni native. Al cinema e anche fuori.
Intanto, lo spaghetti western ha creato anche dei veri e propri sottogeneri. Come quello al femminile dove un posto di primo piano tocca al film francese Le pistolere, con interpreti nientepopodimeno che Brigitte Bardot e Claudia Cardinali. Quest’ultima poi anche protagonista incredibile di un altro capolavoro di Sergio Leone, C’era una volta il west.
Si dice che qualcosa è diventata davvero famosa, quando qualcuno ne fa una parodia e allora non possiamo dimenticare di citare le parodie degli spaghetti western. Gli ascoltatori di lungo corso di Salvatore racconta ricorderanno forse Lo chiamavano Trinità, il film interpretato dagli attori comici Bud Spencer e Terence Hill dove i problemi non si risolvevano con le pistole, ma a scazzottate.
Oggi Sergio Leone è considerato uno dei più grandi registi italiani di sempre. Abita lo stesso olimpo dove trovano posto Fellini, Bertolucci o Visconti.
Riguardare oggi i suoi spaghetti western, a partire da Per un pugno di dollari, è un grande privilegio.
I suoi sono film apparentemente semplici, di sicuro alcuni di loro tecnicamente poveri, ma che hanno avuto il grande merito di cambiare il cinema. Hanno portato nuove idee, nuove storie, e hanno permesso di modificare una visione, penso a quella sui nativi americani, che la cultura popolare aveva creato in un modo profondamente ingiusto e ingeneroso.
Anche se fosse solo per questo, varrebbe la pena guardare un grande spaghetti western. Ma non è solo per questo, fidatevi. Ve lo dirà anche Clint Eastwood, uno a cui è difficile dare torto.
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