#53 – Roberto Baggio, il Divin Codino
Trascrizione dal podcast Salvatore racconta, episodio pubblicato il 12 marzo 2022.
Distribuito con licenza Creative Commons CC-BY 4.0 non commerciale.
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Pasadena, California, 17 luglio 1994.
È una calda sera d’estate. Qui, a due passi da Los Angeles, c’è il Rose Bowl. Un enorme stadio di football che può ospitare più di 90.000 persone.
Quella sera però non si gioca a football. Il campo è ridotto. Alle estremità, al posto delle due porte a forma di acca ci sono due reti. Sull’erba non ci sono linee parallele a segnare le yard.
Perché quella sera, al Rose Bowl, si gioca una partita di calcio.
All’epoca il calcio non è molto popolare tra gli americani. Eppure lo stadio è pieno. Perché quella che si sta giocando non è una partita qualsiasi, ma la finale della Coppa del mondo.
Una di fronte all’altra, a lottare per il titolo, ci sono Italia e Brasile.
Nonostante l’importanza, però, non è una partita molto spettacolare. Dopo i 90 minuti regolamentari e i 30 minuti supplementari, il risultato è ancora zero a zero.
Per decidere chi, tra Italia e Brasile, alzerà al cielo la coppa del mondo si andrà ai rigori.
La lotteria dei rigori. Dove vince chi è più bravo, chi è più fortunato, chi ha i nervi più saldi.
Dopo quattro giri di rigori, il Brasile è avanti 3 a 2. Questo significa che se l’Italia sbaglia il prossimo, la partita è finita e la coppa non sarà azzurra ma verdeoro.
Sul dischetto, per quel momento chiave, c’è l’uomo del destino del calcio italiano.
Quello che indossa la maglia numero 10, la maglia dei campioni e della fantasia.
Pronto a tirare il rigore decisivo c’è Roberto Baggio, il Divin Codino.
Tutto il mondo lo sta aspettando. Tutta l’Italia trattiene il fiato per lui.
L’arbitro fischia, Baggio prende la rincorsa. Tira. E cambia per sempre la storia del calcio italiano.
Non si può capire bene quello che è successo quella notte a Pasadena senza sapere cosa è successo prima.
Roberto Baggio è stato il simbolo di una generazione, il calciatore più forte di tutti. Quello con più talento, con più fantasia, con più genialità.
Quello che ogni ragazzino italiano ha sognato di diventare. Giocando per strada o al campetto.
Del resto, lo stesso Roberto Baggio ha cominciato così. Tirando calci a un pallone ogni pomeriggio della sua infanzia, nel suo paesino in provincia di Vicenza. Come tutti i suoi coetanei.
Solo che rispetto ai suoi coetanei, Baggio aveva la stessa passione, ma un talento infinitamente superiore.
E infatti già a 13 anni, quando ancora non deve farsi la barba, è già un calciatore del Vicenza.
A sedici anni esordisce in prima squadra, tra i professionisti. Ha i capelli lunghi, e li tiene legati in un codino. Non immagina ancora quanto diventerà iconico quel codino.
Quello che conta però sono i suoi piedi. Si muove come un ballerino. Con il pallone sempre attaccato. Come se i suoi scarpini fossero di ferro e la palla una calamita.
È chiaramente un predestinato, ma la fortuna gli volta subito le spalle. A 18 anni, durante una partita, si fa male a un ginocchio. Sembra una cosa seria. È una cosa seria. Il chirurgo che lo opera gli dà 220 punti di sutura.
Un ginocchio ridotto così male a un’età così giovane può significare la fine prematura della sua carriera. Le speranze, in effetti, sono ridotte al lumicino.
Baggio però non si butta giù. È ancora un ragazzino, ma ha le idee chiare. Trova la sua strada nella meditazione e si avvicina al buddismo. Una scelta decisamente controcorrente nell’Italia degli anni ’80, soprattutto per un giovane calciatore.
Nel frattempo c’è chi crede in lui, nonostante l’infortunio. È la Fiorentina, che decide di comprarlo per la stagione successiva.
Quando Baggio arriva a Firenze, incontra subito l’entusiasmo dei suoi nuovi tifosi. Lui da quell’entusiasmo sembra quasi spaventato, ha bisogno di tempo per tornare in forma e inoltre, con grande sfortuna, si fa male di nuovo. I tifosi viola però sono pazienti, intuiscono il suo talento e aspettano il suo momento. Che arriverà. Esattamente un anno dopo il secondo infortunio.
In quella stagione, la Fiorentina rischia di retrocedere in serie B. Alla fine del campionato ha bisogno di punti per salvarsi. E una delle ultime occasioni per conquistarli è contro il Napoli di Maradona. Una partita che i napoletani pensano di vincere in carrozza. Fino a quando l’arbitro non fischia un calcio di punizione per la Fiorentina. Tira Roberto Baggio. E il ragazzo insicuro, arrivato a Firenze dopo un grave infortunio, davanti a Maradona tira una punizione perfetta. La pennellata di un pittore. È il goal che vale il pareggio. Un punto prezioso. La Fiorentina è salva. I tifosi viola hanno trovato il loro nuovo eroe.
Baggio resta a Firenze per altri tre anni. Gli infortuni ormai sembrano acqua passata. Lui corre, inventa, dribbla, e soprattutto segna. Nel 1990 chiude il campionato al secondo posto nella classifica dei cannonieri. Davanti a lui una leggenda, Marco Van Basten. Dietro di lui, un’altra leggenda, Diego Maradona.
Ormai è chiaro che il posto di Baggio è tra quei giocatori lì, nell’olimpo del calcio. Se ne rendono conto alla Fiorentina, ma anche altrove.
In particolare a Torino, a casa della Juventus. Che in quel periodo è in crisi di risultati e ha bisogno di una nuova identità. Il presidente dei bianconeri, Gianni Agnelli, è pronto a fare carte false per avere Baggio.
Offre molti soldi alla Fiorentina e mostra spavalderia con i giornali. È sicuro che Baggio a breve sarà juventino. I tifosi della Fiorentina reagiscono con preoccupazione e con rabbia. Lo stesso Baggio, ogni volta che può, dichiara ai giornali la sua volontà di restare a Firenze.
Quelli però sono anni in cui l’opinione dei calciatori non conta granché. Gli affari li fanno i presidenti.
E che i presidenti di Fiorentina e Juventus stiano trattando per Roberto Baggio è un segreto di Pulcinella. Ovvero, in teoria è un segreto, in pratica lo sanno tutti.
Baggio soffre molto per questa situazione. Non è tranquillo e gioca al di sotto del suo livello. Come nella partita più importante della stagione. La finale di Coppa Uefa che la Fiorentina giocherà, per ironia della sorte, contro la Juventus.
La Fiorentina è arrivata in finale a sorpresa, ma avrebbe le carte in regola per puntare alla vittoria. Le cose però vanno diversamente, Baggio resta in ombra, gioca male e la coppa prende la strada di Torino.
Poche settimane dopo, la stessa strada la fa anche Roberto Baggio.
È ufficiale. Firma un contratto con la Juventus.
A Firenze i tifosi sono ciechi di rabbia. Organizzano proteste e manifestazioni.
Per fortuna però, quell’estate, l’Italia del calcio ha altro a cui pensare. È il 1990, ci sono i mondiali e sono proprio in Italia. Gli azzurri sono forti e motivati. Ci tengono a fare bella figura davanti al pubblico di casa.
Baggio è uno dei calciatori più attesi e fa esultare l’Italia intera con un goal di bellezza incredibile contro la Cecoslovacchia. Quei mondiali però saranno deludenti alla fine per l’Italia. Che perde in semifinale contro l’Argentina ai calci di rigore.
È una doccia fredda per tutti. Calciatori e tifosi speravano di festeggiare la vittoria della coppa a Roma e invece niente. Baggio, come gli altri calciatori, va in vacanza. Al suo ritorno lo aspetta una nuova avventura. A strisce bianche e nere.
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Gli inizi alla Juventus non sono facili per Roberto Baggio. I tifosi si aspettano molto, mentre lui pensa ancora a Firenze. E la cosa si vede benissimo proprio il giorno di Fiorentina-Juventus.
Allo stadio di Firenze, per la Juventus e per Baggio la partita è subito dura. I tifosi viola fanno un tifo infernale e la Fiorentina segna il goal del vantaggio. Uno a zero. Poi la Juventus si conquista un rigore. Un’occasione per pareggiare. Toccherebbe a Baggio tirare. Ma lui si rifiuta. Dice che il portiere viola lo conosce troppo bene. Ma la verità è che non se la sente. Al suo posto tira Deagostini, che sbaglia.
A metà del secondo tempo, Baggio viene sostituito. È chiaro che non è nelle condizioni mentali per dare il meglio. Mentre esce dal campo, alcuni tifosi della Fiorentina lo insultano, altri lo applaudono. Uno di loro tira in campo una sciarpa viola. Baggio la vede, la raccoglie, la porta con sé. È il suo modo per dire ai fiorentini: non vi ho dimenticato.
I suoi nuovi tifosi, quelli juventini, non sono troppo contenti, ma chiudono un occhio. Anche perché da lì in poi Baggio comincia a giocare molto bene e chiude la stagione con 27 goal segnati.
E negli anni successivi, esplode definitivamente. Senza infortuni gravi a bloccarlo, Baggio riporta la Juventus in alto, la rende competitiva per la vittoria del campionato e, nel 1993, gioca una stagione così incredibile da vincere il Pallone d’Oro.
Arriviamo così all’estate del 1994. Quella dei mondiali negli Stati Uniti.
La squadra azzurra è di alto livello e Baggio naturalmente è la sua punta di diamante.
Roby però non parte benissimo. Nelle prime partite gioca poco, gioca male, litiga con il commissario tecnico Arrigo Sacchi. L’Italia si qualifica alla fase successiva per il rotto della cuffia.
Ma lì, qualcosa si sblocca. Roberto Baggio sale in cattedra e trascina gli azzurri con cinque goal in tre partite. Praticamente da solo, porta l’Italia in finale.
Ed eccoci lì, dove eravamo partiti. A Pasadena.
Baggio è in campo quella sera, ma non è al cento per cento. Contro la Spagna in semifinale, si è fatto male e contro il Brasile non è riuscito a brillare.
Ora però ci sono i rigori. Il suo rigore.
Se segna, c’è ancora una speranza. Se sbaglia, il Brasile sarà campione del mondo.
Un peso enorme da sopportare. Ma è sulle spalle del numero 10, del migliore degli azzurri, che in tante occasioni ha salvato i suoi compagni.
In Italia, per il fuso orario, è notte fonda. Baggio va sul dischetto mentre una nazione intera sta passando la notte in bianco sperando di esultare con lui.
L’arbitro fischia, Baggio prende la rincorsa. Tira.
Alto.
Quello che succede dopo sembra un film al rallentatore. Roby che guarda la palla volare. Il portiere brasiliano che esulta. I tifosi del Brasile allo stadio che urlano di gioia.
È finita. Il Brasile è campione del mondo. L’Italia esce dal campo a testa bassa.
Mastica amaro, Roberto Baggio. Ha vinto il pallone d’oro, ma non è riuscito a diventare campione del mondo.
Quell’evento lo segna nel profondo, ma la sua carriera non finisce lì. Ha davanti altri dieci anni di calcio ad alti livelli.
Anni in cui viene fuori il suo carattere poco incline al compromesso. Litiga praticamente con ogni allenatore che incontra. Dopo il mondiale del 94, resta alla Juventus ancora un anno, quanto basta per vincere lo scudetto, e poi cambia squadra in continuazione. Milan, Bologna, Inter, Brescia.
Dopo i mondiali del 90 e del 94, Roby Baggio partecipa anche a quelli del 98. Ai quarti di finale, contro la Francia campione di casa, sono di nuovo i rigori a decidere chi andrà avanti. Baggio deve tirare il primo. E lo segna, questa volta. Può scacciare i suoi fantasmi privati. Anche se è un sollievo relativo. Perché alla fine di quel pomeriggio, la Francia va in semifinale e l’Italia torna a casa.
Baggio però non demorde. Passa i quattro anni successivi con un chiodo fisso. Partecipare al suo quarto mondiale, nel 2002. Il commissario tecnico, Giovanni Trapattoni, decide però di lasciarlo a casa. Baggio ormai sembra sul viale del tramonto, il suo fisico non dà garanzie.
Dopo quel mondiale mancato, Baggio gioca ancora due anni e si ritira nel 2004, da calciatore del Brescia. Eroe di una piccola squadra di provincia. Forse il simbolo giusto per un calciatore che è stato davvero il campione degli italiani.
Che non si è legato mai del tutto a una squadra o a una città, ma si è trovato a essere idolo di un popolo intero.
Il calcio italiano non ha più avuto un calciatore così amato e universale. Come canta Cesare Cremonini in una sua famosa canzone, “da quando Baggio non gioca più, non è più domenica”.
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