fbpx

#50 – Il colonialismo italiano

Trascrizione dal podcast Salvatore racconta, episodio pubblicato il 19 febbraio 2022.

Distribuito con licenza Creative Commons CC-BY 4.0 non commerciale.

Per ascoltarlo, clicca qui.

 

Clicca qui per scaricare il pdf

 

Quando si arriva a Roma in treno, l’opzione più facile è quella di scendere alla stazione di Roma Termini.

È una stazione grande, moderna, piena di ristoranti e negozi. Sembra più un centro commerciale ormai, che una stazione ferroviaria.

Se usciamo emozionati dalla sua entrata principale, ci aspettiamo di trovarci da subito di fronte alla bellezza di Roma.

Invece no.

Ci troviamo di fronte a una piazza francamente brutta. Un enorme parcheggio per autobus e taxi di cui quasi non si vede la fine.

Roma, quella vera, artistica, comincia subito dopo. Da quella piazza però ci si deve passare.

È un posto dalla posizione così strategica che tutti sanno come si chiama. È piazza dei Cinquecento.

Chi sono questi cinquecento?

Non lo sanno in molti. E quelli che lo sanno, di solito, ne parlano malvolentieri.

Perché parlare di questa vicenda significa affrontare una pagina oscura della storia italiana. Una pagina della quale ci vergogniamo un po’, e che contrasta molto con l’immagine degli italiani nel mondo.

I cinquecento della piazza non hanno nessuna colpa né responsabilità diretta. Sono, o meglio erano, soldati italiani, morti durante una battaglia tragica.

Quello che rende difficile parlarne è dove hanno combattuto, chi ce li ha mandati e perché.

Sono morti a Dogali, in Eritrea, nell’Africa nord-orientale. Era il 26 gennaio del 1887.

Era uno dei primi passi del colonialismo italiano.

Per parlare del colonialismo italiano è importante capire bene il contesto.

La battaglia di Dogali, quella dei cinquecento, si è combattuta nel 1887. Che Italia era?

Un’Italia giovanissima, unita da nemmeno trent’anni.

Uno Stato appena nato in mezzo a stati ricchi, potenti e pieni di esperienza. Tutte cose basate anche sul colonialismo.

Quando i re di casa Savoia iniziano a farsi chiamare re d’Italia, la Francia e la Gran Bretagna hanno colonie da secoli. Anche la Spagna ne ha, e il Portogallo. E pure i Paesi Bassi.

Insomma, in quegli anni la potenza di uno Stato dipende dalle ricchezze possedute e dalla sua grandezza. Tutti poi vogliono essere grandi e potenti. Il motivo non importa. Importa il potere. Per averlo, serve avere delle colonie.

Quando a Roma, ministri e diplomatici si pongono il problema, la soluzione sembra lampante davanti agli occhi. A un passo dalla Sicilia, al di là del mare, c’è il nord Africa. In buona parte ormai è in mano francese, ma ci sono terre ancora libere.

Cosa voglia dire “libere” nella mente dei colonialisti di quel tempo è semplice. Libere significa non controllate da un altro stato europeo. Il resto non conta. Nei palazzi del potere romano guardano le mappe e vedono la Tunisia. I francesi non ci sono arrivati. In teoria è una regione dell’Impero ottomano, uno stato antico e nobile, ma che sta andando in frantumi. Non c’è niente di male a prendersene un pezzo.

Solo che l’Italia non è l’unica a pensarlo. Lo fa pure la Francia, che agisce per prima e si prende un altro pezzo di Africa.

A Roma le reazioni sono di offesa e di scandalo, come se i soldati francesi avessero preso qualcosa che toccava agli italiani. A nessuno ovviamente importa cosa pensino gli ottomani o tantomeno i tunisini.

In ogni caso, l’Italia resta un anno a leccarsi le ferite e poi torna alla carica. Stavolta punta ad alcuni porti strategici sul Mar Rosso a sud dell’Egitto, nei territori delle attuali Etiopia ed Eritrea.

Da quelle parti esistono Stati africani indipendenti, ma c’è anche un’importante influenza della Gran Bretagna. I britannici non hanno nulla in contrario all’espansione italiana da quelle parti. Anzi, la vedono di buon occhio come bilanciamento alle ambizioni francesi.

In men che non si dica, compagnie di navigazione italiane prendono il controllo dei porti e poi i diplomatici del regno d’Italia iniziano una campagna per seminare zizzania tra i principi etiopi. L’obiettivo finale è creare caos per prendere il controllo della regione. Non è una guerra aperta, al massimo guerriglia.

Che porta diretta alla battaglia di Dogali, quella dei cinquecento.

Insomma, gli italiani in Eritrea non sono lì ufficialmente come invasori. Con un bel po’ di presunzione, non pensano nemmeno di doverlo fare. Occupano i porti, costruiscono fortificazioni, mandano un po’ di soldati tanto per controllare. Convinti che non debba succedere nulla.

Quella zona, tuttavia, appartiene all’impero di Etiopia. Che a un certo punto reagisce militarmente a quella che dal suo punto di vista è una vera e propria invasione. Invia così un contingente di 25.000 soldati ad attaccare il piccolo forte di Saati dove si trovano poco più di 800 soldati italiani.

La disparità numerica è impressionante, ma gli italiani riescono a resistere perché sono protetti dal forte e perché hanno armi migliori. Dopo un giorno, comunque, chiedono rinforzi.

Così il giorno dopo 548 militari italiani partono per raggiungere i compagni e aiutarli. Non arriveranno mai. Lungo la strada, all’altezza di Dogali, vengono attaccati da un gruppo di 7000 soldati etiopi.

Come il giorno prima a Saati, gli italiani sono molto meglio armati anche se in netta minoranza. Questa volta però non sono dentro un forte, ma in mezzo a una valle. È un massacro. Dei 548 soldati italiani, 430 muoiono in battaglia.

Quando la notizia arriva a Roma, causa indignazione e orrore. Il presidente del consiglio dell’epoca, Agostino Depretis, decide però di usare la sconfitta a proprio favore. Mette in moto la macchina della propaganda per gestire quella patata bollente e per trasformare quella sconfitta in un momento di orgoglio nazionale.

I morti sono stati 430, ma i giornali cominciano a parlare di cinquecento valorosi italiani, morti per la patria. Cinquecento perché le cifre tonde funzionano meglio, lo sappiamo. E quindi la piazza di Roma ancora oggi racconta una grande piccola bugia di propaganda.

Fatto sta che all’epoca funziona, Depretis convince il Paese e il parlamento a continuare la guerra per vendicare i caduti.

Negli anni successivi l’Italia è convinta a continuare la sua avanzata, e obbliga l’impero d’Etiopia a firmare un trattato che accetta la presenza italiana nella regione. Che gli piaccia o no. Solo che è un trattato ambiguo che porta nuovamente alla guerra. E questa volta, è guerra vera.

Nel marzo del 1896, si combatte la battaglia di Adua.

Clicca qui per scaricare il pdf

Da parte italiana, combattono 17.000 soldati. Da parte etiope, circa 100.000. Gli etiopi sono motivati e combattivi, dopotutto difendono le loro case. I soldati italiani sono stanchi, soffrono la lontananza da casa e le condizioni climatiche.

Dopo la piccola battaglia di Dongali, quella di Adua è un disastro vero. Da parte italiana ci sono 7000 morti, 1500 feriti, 3000 prigionieri. È una disfatta senza appello che mette una pietra tombale sulle ambizioni coloniali dell’Italia. Almeno per il momento.

Le fantasie coloniali nel governo italiano scompaiono per un po’ e poi tornano a galla. Nel 1912. Sedici anni dopo Adua. In questo momento, il presidente del consiglio è Giovanni Giolitti. Un uomo che ha tanti ammiratori e altrettanti nemici. Uno che quando decide qualcosa raramente torna sui suoi passi.

Giolitti pensa che sia il momento di tornare a parlare di colonie. Non in Eritrea questa volta. La ferita di Adua brucia ancora. Ma per esempio in Libia, a casa dei soliti ottomani indeboliti. Stavolta, nel giro di un anno, la Libia è italiana.

La fame di terra non si ferma lì, ma per un po’ cambia direzione. Dalle tensioni interne all’Europa, scoppia la prima guerra mondiale. In Italia nessuno pensa più all’Africa. Tutti hanno in testa Trento e Trieste, città italiane, ancora controllate dall’Austria.

La prima guerra mondiale per l’Italia è un evento strano. In teoria, i diplomatici italiani si siedono al tavolo dei vincitori, in pratica rispetto alle tante richieste territoriali, restano a bocca asciutta. Trento e Trieste? Va bene, ma dall’Africa niente di nuovo.

Così nella società italiana del dopoguerra serpeggia un sentimento di frustrazione. Quello che dà inizio al fascismo e che porta al potere Benito Mussolini. Lui, ex giornalista, sa come parlare alla gente e ha naso per la propaganda. Capisce che non ha senso parlare di riportare l’Italia alla gloria di Roma senza avere un impero. E quell’impero può, e deve, essere fatto di altre colonie.

Solo che ormai in Africa c’è rimasto poco da spartirsi. Le uniche terre rimaste sono quelle dell’Etiopia con cui l’Italia di quel tempo ha ancora il dente avvelenato dopo Adua.

Nel giro di pochi anni si arriva alla resa dei conti con l’Etiopia, si arriva all’Amba Aradam.

Nel 1935, dalle colonie italiane in Eritrea, il potere fascista comincia la guerra d’invasione dell’Etiopia.

La battaglia più famosa si combatte su un altopiano che in lingua locale si chiama Amba Aradam.

È ancora una volta una battaglia dura, con moltissimi uomini in campo. Questa volta però le truppe italiane hanno la meglio. Grazie alla superiorità tecnologica dei propri armamenti e all’uso di armi illegali come i gas asfissianti. Dopo nove giorni di battaglia, l’esercito etiope batte in ritirata e il generale italiano Badoglio ordina di bombardare i soldati in fuga e anche i villaggi vicini, facendo una strage di innocenti.

Il fascismo celebra l’Amba Aradam come una grande vittoria dell’Italia imperiale. Oggi possiamo dire che si è trattato di un momento particolarmente triste e disonorevole per la storia italiana. Nonostante tutto, ancora oggi nel centro di Roma esiste una Via dell’Amba Aradam e il nome di quell’altipiano è diventato una parola di uso comune in italiano.

Oggi per fortuna è in disuso. Ma in un vecchio film o in un vecchio libro potete leggere o sentire qualcuno che usa ‘ambaradan’ per descrivere una situazione confusa e caotica. Ricordate però che oggi è una parola veramente inopportuna. Perché una battaglia che ha ucciso innocenti con i gas asfissianti non può essere un buon sinonimo di caos

Torniamo agli anni del fascismo. Dopo l’Amba Aradam, Mussolini conquista tutta l’Etiopia. Il re può vantarsi del titolo di imperatore, vengono scritte canzoni razziste, come Faccetta nera, che prendono piede con grande facilità. Molti italiani emigrano nelle nuove colonie per fare i padroni.

Con la fine ingloriosa del fascismo e il disastro della seconda guerra mondiale, l’Italia perde tutte le sue colonie.

Nell’orbita italiana resta solo la Somalia. Come protettorato a tempo. Un tempo che si è esaurito nel 1960.

A differenza di quanto successo alla Francia o al Regno Unito, l’Italia non conserva particolari legami con le sue ex-colonie e l’uso della lingua italiana in quelle regioni è minoritario, se non inesistente.

Questo non vuol dire che il colonialismo italiano abbia lasciato poche tracce. Ci sono stati grandi investimenti, soprattutto nelle infrastrutture, ma certo non sono stati disinteressati. Altre tracce sono rimaste e sono quelle dei soprusi, dello sfruttamento, delle violenze sessuali. Tutte cose di cui non si parla mai. E quando se ne parla, si prova a minimizzarle. Come ha fatto il famoso giornalista Indro Montanelli, giovane all’epoca delle guerre coloniali, quando una volta in tv ha raccontato come se niente fosse di avere avuto come moglie una bambina eritrea di appena dodici anni.

Anche per questo, parlare del colonialismo in Italia oggi è ancora difficile.

Resiste tra la gente il mito degli “Italiani, brava gente”, derivato dal titolo di un film che mostra un gruppo di soldati italiani impegnati nell’invasione sovietica del 1941. I soldati italiani ritratti nel film sono spesso ingenui e simpatici, messi in relazione ai severi e crudeli soldati del Reich.

Il film è molto bello, ma quest’immagine è caricaturale e assolutoria in un modo oggi inaccettabile.

La retorica della simpatia non può più nascondere le crudeltà e gli orrori di una pagina di storia fatta di violenze, uccisioni e sfruttamento razzista. Ammetterlo non è una vergogna, ma un gesto di responsabilità.

Clicca qui per scaricare il pdf

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *