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#41 – Dino Meneghin, il gigante buono del basket

Trascrizione dal podcast Salvatore racconta, episodio pubblicato l’11 dicembre 2021.

Distribuito con licenza Creative Commons CC-BY 4.0 non commerciale.

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Dino Meneghin Salvatore racconta Podcast in italiano per stranieri

 

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In Italia per molto tempo è andata così. A scuola, durante la lezione di educazione fisica, i più bravi giocavano a calcio. I rimanenti guardavano o facevano altro. E quando qualcuno era davvero bravo, poi finiva a giocare a calcio nella squadra giovanile locale. Un po’ meno bravo? Allora, magari, a fare il portiere.

Il calcio è stato, e in parte è ancora, lo sport dominante in Italia. Che lascia le briciole alle altre discipline. Che si tratti di fondi, di tifosi, o di campioni.

È anche vero però che l’Italia di campioni in altri sport ne ha avuti tanti. A partire dal ciclismo, di cui abbiamo parlato varie volte, ma non solo.

Tra gli sport di squadra, in Italia il calcio ha sempre avuto un fratello minore che si tiene stretto il secondo post. È la pallacanestro, lo sport della palla a spicchi. In italiano ha il suo nome fiero, anche se sono comunque in molti a usare l’universale versione ‘basket’.

La pallacanestro italiana ha avuto il suo periodo più splendente intorno agli anni ’80, quando squadre della penisola erano quasi sempre in lotta per i titoli europei e quando la nazionale azzurra ha vinto un campionato europeo e una medaglia d’argento ai Giochi olimpici.

In quegli anni lì, l’eroe della palla a spicchi per eccellenza aveva dei tratti precisi. Una casacca con il numero 11, un volto bonario e gentile, muscoli e talento distribuiti su un’altezza di due metri e quattro centimetri.

Fa parte della Hall of fame del basket del Naismith Memorial. Condivide quest’onore con gente come Michael Jordan o Kobe Bryant.

Ha partecipato a quattro olimpiadi, vinto 12 titoli italiani e 7 coppe dei campioni. Ha giocato 836 partite in 28 anni di carriera, segnando 8580 punti.

Senza alcun dubbio, è il cestista più forte della pallacanestro azzurra.

È Dino Meneghin, il gigante buono del basket italiano.

Se vi interessate un po’ di onomastica, forse saprete già che la maggior parte dei cognomi tronchi che finiscono in consonante hanno un’origine geografica precisa: il Veneto.

La famiglia Meneghin non fa eccezione, viene infatti da Belluno, città che sorge ai piedi delle Dolomiti.

Per ironia della sorte, il “meneghin” è una maschera del carnevale di Milano e meneghino è spesso usato quasi come sinonimo di milanese. Ironia della sorte perché Dino Meneghin sarà legato a Milano per tanti anni.

La sua storia sportiva però non inizia a Milano, ma a Varese. Pochi chilometri di distanza sulla carta, ma tanta differenza e tanta rivalità nel basket.

Meneghin nasce nel 1950 e questo significa che passa l’infanzia e l’adolescenza nel dopoguerra. In quegli anni il campionato di pallacanestro è dominato da due squadre. La Virtus Bologna da un lato, l’Olimpia Milano dall’altro. La terza incomoda è la Ignis Varese. Dove Dino Meneghin inizia la sua carriera.

Quella Varese è una squadra ambiziosa, capace in due occasioni di vincere il campionato, ma sempre un passo dietro le grandi dominatrici. La rivalità con Milano diventa fortissima, anche a causa della vicinanza geografica.

Dino Meneghin non lo capisce ancora. Ha solo 16 anni e arriva da lontano. Eppure già il primo giorno commette un errore quasi imperdonabile. Arriva al campo di allenamento con un paio di scarpe rosse. Il simbolo più famoso dell’Olimpia Milano. Il simbolo del nemico. Futuri compagni, allenatore, assistenti. Tutti lo guardano storto, ma ci mettono presto una pietra sopra. Sono sicuri che il ragazzo ha talento e che si farà perdonare.

Come fanno a essere così sicuri? Perché a portarlo lì è stato un uomo di grande fiuto: Nico Messina, osservatore e allenatore di grande esperienza. Con Messina allenatore e Meneghin in campo, l’Ignis Varese è pronta a dominare la pallacanestro in Italia e in Europa.

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Il ragazzone di Belluno ha molto talento e si vede presto, ma è tutta la squadra di Varese a essere di buona qualità. Sono uniti, motivati e funzionano come un ingranaggio ben oliato. Dal 1968 al 1971, il Varese vince tre scudetti di fila e, tutte e tre le volte, in finale batte Milano. Non è più una cenerentola, ma una squadra che a livello nazionale può dire il suo. Soprattutto, grazie alla qualità e alla tenacia del suo centro, Dino Meneghin.

Le vittorie in campionato per Varese non significano solo l’affermazione a livello italiano, ma anche l’accesso alla competizione più ambita a livello europeo. La coppa dei campioni, oggi Eurolega.

Nel decennio che va dal 1969 al 1979, in finale c’è sempre Varese. La squadra di Meneghin si gioca il titolo per dieci volte di fila, un record ancora insuperato, e lo vince in cinque occasioni, scontrandosi contro le corazzate del basket continentale. Le squadre sovietiche, jugoslave, spagnole e anche gli israeliani del Maccabi Tel Aviv.

Nel frattempo, una curiosità che nel mondo di oggi sembra incredibile. Nel 1970, quando Dino Meneghin si prepara a vincere la sua prima coppa dei campioni, negli Stati Uniti sono in corso i draft NBA. Ovvero, il caratteristico sistema con cui le squadre di basket americane scelgono i loro giocatori per la stagione successiva. Gli Atlanta Hawks, alla fine di quel draft, dichiarano un nome esotico: Dino Meneghin. Il bellunese avrebbe un’occasione di arrivare in NBA, forse è l’occasione della vita. Dice di sì o dice di no?

Non dice niente. Perché nessuno lo ha informato, nemmeno Atlanta che lo aveva scelto. Così, il treno Nba passa per sempre.

Dopo dieci anni incredibili in Europa, la stella di Varese comincia a calare. La squadra comincia a perdere colpi anche in Italia, dove lotta sempre per i campionati ma deve dividere la gloria con i rivali dell’Olimpia Milano.

Dino Meneghin intanto ha già trent’anni. Sembrano passati in fretta, tutti con la stessa maglia, quella di Varese.

Beh, non proprio tutte le partite con la stessa maglia. A quella del suo club, infatti, ha alternato quella della nazionale italiana. Con addosso la casacca azzurra, Meneghin ha la forza per trascinare l’Italia nel torneo olimpico ai Giochi di Mosca del 1980. Non ci sono gli americani, che hanno boicottato le olimpiadi sovietiche, ma gli avversari sono comunque forti. L’Italia di Dino lotta e arriva in finale dove cede solo alla terribile Jugoslavia. È argento, comunque. Un argento che vale tantissimo per il basket azzurro.

Nel 1981, Dino Meneghin è un vicecampione olimpico, cinque volte vincitore della coppa dei campioni e sette volte campione d’Italia.

Però ha anche 31 anni. Tanti per uno sportivo, soprattutto per uno di quella generazione. A Varese in molti pensano che sia troppo vecchio ormai, che sia bollito, come si dice in gergo.

Dino non ci crede, ha ancora voglia di giocare e soprattutto di vincere. Quando Varese gli dà il benservito e gli dice ‘grazie di tutto, Dino, ma il tuo momento è passato, lui cerca subito un’altra squadra.

Riceve un’offerta da una squadra per cui arrivare secondi è solo uno dei tanti modi in cui declinare la parola ‘perdere’.

Accetta la proposta e firma il contratto più importante della sua vita.

Dalla stagione 81/82, Dino Meneghin sarà il centro dell’Olimpia Milano.

I giocatori che si legano per lungo tempo, o addirittura per tutta la carriera, alla maglia e ai colori di un club si chiamano in gergo ‘bandiere’. Dopo 13 anni, Dino Meneghin era certamente una bandiera del Varese e con quei colori addosso aveva vinto quasi tutto quello che poteva vincere.

Lo sapevano tutti. Soprattutto a Milano. I tifosi all’inizio non lo vedono di buon occhio, soprattutto perché viene dai rivali del Varese e perché è vecchio e pensano che non sia più in grado di giocare ad alti livelli.

All’inizio, Meneghin sembra dargli ragione. Nemmeno il tempo di cominciare la stagione che ha un infortunio grave. Si rompe il menisco. Potrebbe significare anche la fine della carriera, non solo della stagione. Ma lui si allena paziente in palestra, fa tanta riabilitazione e a metà stagione torna in pista.

Intorno a gennaio, quando il campionato è più o meno al giro di boa, Milano senza Meneghin è in fondo alla classifica. Con il ritorno di Dino, la squadra comincia una rimonta clamorosa che la porta alla finale contro Cantù e alla vittoria dello scudetto.

Dino Meneghin è di nuovo campione italiano, questa volta con l’Olimpia Milano e la guida di Dan Peterson.

Due parole quest’uomo le merita, per il ruolo che ha avuto nella storia del basket italiano. Nato in Illinois, arrivato in Italia come allenatore, ha legato il suo nome a doppio filo alla pallacanestro anche come commentatore. La sua voce un po’ roca e il suo italiano caricato di un fortissimo accento americano sono rimasti nella memoria di molti.

Alla guida di Milano, Peterson porta una rivoluzione che dura un decennio. La fa a partire dallo zoccolo duro della squadra, i ragazzi cresciuti nelle giovanili, ma aggiungendo a loro l’esperienza del suo nuovo centro Dino Meneghin.

I due insieme vincono quattro campionati italiani e una coppa dei campioni. Quella della stagione 86/87 scolpita per sempre nella memoria degli appassionati milanesi di basket.

Quell’anno, la stagione dell’Olimpia Milano non inizia per niente bene, i risultati sono altalenanti e ci sono polemiche tra alcuni giocatori e Dan Peterson.

La tensione si riflette sui risultati anche in Europa. Ai quarti di finale, Milano affronta i greci dell’Aris Salonicco e la partita di andata, in Grecia, è un massacro. Gli uomini di Dan Peterson giocano una delle peggiori partite della loro storia, perdono con uno scarto di 31 punti. Se vogliono continuare il percorso in coppa, al ritorno a Milano devono vincere loro con almeno 32 punti di vantaggio. Un’impresa che sembra impossibile.

Ma non per Dan Peterson e l’Olimpia. Il giorno del ritorno, l’arena di Milano è strapiena di tifosi. La società ha deciso di vendere i biglietti a prezzi bassissimi pur di riempire gli spalti di tifosi e creare una bolgia infernale a favore dell’Olimpia. Risultato ottenuto.

In quel clima galvanizzato, Meneghin e i suoi compagni giocano una partita incredibile, recuperano lo svantaggio dell’andata e vincono con 34 punti di vantaggio. Qualificazione ottenuta. Tifosi in delirio.

Alla fine di quella stagione, l’Olimpia vince il campionato italiano e la coppa dei campioni concludendo una stagione fantastica, che è anche l’ultima di Dan Peterson in panchina.

Cosa può chiedere di più Dino Meneghin alla sua carriera? E cos’altro può dare al basket italiano? Poco altro davvero. Anche perché, non lo abbiamo detto, ma tre anni prima, nel 1983, ha portato l’Italia al successo inaspettato nei campionati europei giocati in Francia quell’anno. Nel giro di un paio di settimane, gli azzurri riescono a vincere contro la Jugoslavia e a imporsi due volte contro la Spagna, di cui una in finale.

Per rivedere l’Italia campione d’Europa nel basket bisognerà aspettare 16 anni quando in campo ci sarà di nuovo Meneghin. No, non Dino, ma suo figlio Andrea. Diventato anche lui professionista di altissimo livello, anche se ha vinto molto molto meno rispetto al padre.

Dopo i successi degli anni ‘80, Dino Meneghin ha continuato a giocare ancora per otto anni, fino al 1994.

L’emblema della sua lunghissima carriera, finita quando aveva 44 anni, è una partita giocata nella sua ultima stagione. Dopo gli anni milanesi, Dino è passato per tre anni alla Pallacanestro Trieste, salvo poi tornare a Milano per un’ultima stagione. Una specie di the last dance. In quell’anno, nella partita contro Varese, c’erano due casacche con il cognome Meneghin stampate dietro. Una era quella di Dino, per Milano, l’altra quella di suo figlio Andrea per Varese. Padre e figlio avversari sul parquet. Un sogno sportivo ineguagliato.

Dopo ruoli da allenatore e da dirigente, oggi Dino Meneghin si gode una vita tranquilla. Consapevole di avere lasciato una traccia indelebile nella pallacanestro italiana e nello sport in generale. Pochi anni fa, l’Olimpia Milano ha deciso che nessuno più nella sua storia potrà indossare la maglia numero 11. Resterà per sempre Dino Meneghin.

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