#25 – Pietro Mennea, la freccia del sud
Trascrizione dal podcast Salvatore racconta, episodio pubblicato il 21 agosto 2021.
Distribuito con licenza Creative Commons CC-BY 4.0 non commerciale.
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I Giochi olimpici di Tokyo 2020, anzi 2021, si sono conclusi da pochi giorni. Abbiamo ancora nella mente le immagini di imprese sportive appena successe.
In Italia, in particolare, ci siamo emozionati per delle vittorie inaspettate. Come quella di Marcell Jacobs nei cento metri maschili, o quella sempre di Marcell Jacobs insieme a Filippo Tortu, Fausto Desala e Lorenzo Patta nella staffetta 4×100 maschile.
Due medaglie d’oro olimpiche nell’atletica leggera sono state sorprendenti. Perché l’atletica leggera è stata per molto tempo il tallone d’Achille dello sport italiano. Soprattutto nelle specialità della corsa.
Ci siamo abituati a pensare, per tanto tempo, che gli uomini più veloci del mondo potevano chiamarsi solo Usain Bolt o Carl Lewis. Di certo non Filippo Tortu o Lorenzo Patta.
Invece quest’anno è andata diversamente e i velocisti azzurri hanno conquistato la gloria olimpica.
È stato un evento, che non succedeva da tanto tempo.
Per tornare all’ultima emozione simile, dobbiamo andare a Mosca.
In Russia, direte voi. Non proprio. In Unione Sovietica, per essere precisi. Perché andiamo a Mosca nel 1980. Non ve la immaginate piena di neve, però. Perché è agosto. E anche nella Mosca sovietica, ad agosto non nevica.
Lo stadio principale della città, che in quel periodo si chiama stadio Lenin, è pieno di gente. Perché ci sono i Giochi olimpici e quel giorno c’è una delle gare più belle dell’atletica. La finale dei 200 metri maschili.
Tra gli otto atleti ai blocchi di partenza, c’è un ragazzo con la maglietta azzurra, i capelli scuri e il fisico asciutto.
Pronti, via, si parte. L’atleta azzurro parte un po’ lentamente. A metà corsa sembra che arriverà quarto. Poi trova dell’energia inaspettata, accelera, recupera tutti, vince. Medaglia d’oro.
Il ragazzo vestito d’azzurro è campione olimpico. Lo sa. Saluta la tribuna dello stadio Lenin con il dito indice alzato. In Italia la gente fa festa davanti alle tv.
Ha vinto un italiano. Ha vinto Pietro Mennea, la freccia del sud.
Quel ragazzo dall’aria seria, anche un po’ malinconica, magro e scuro di capelli era da anni la grande speranza dell’atletica italiana.
Un ragazzo venuto dal sud, cresciuto in una famiglia senza tradizione sportiva, ma che è diventato campione olimpico.
Pietro Mennea nasce a Barletta, vicino a Bari, nel 1952. I suoi genitori sono persone semplici, senza molti soldi. Per tutta la vita Pietro sarà ossessionato dall’idea di avere una sicurezza economica e uno dei suoi primi obiettivi, una volta diventato atleta, è quello di aiutare il padre a trovare un lavoro stabile e tranquillo.
Non ci sono atleti in famiglia, nessuna fonte a cui ispirarsi. C’è però un insegnante. Il suo professore di ginnastica della scuola superiore nota che Pietro è piuttosto bravo a correre. Lo convince a provare un po’ più seriamente.
Comincia, letteralmente, nel cortile della scuola. Ed è bravo. Va davvero veloce. Qualcuno racconta una storia, a dire la verità che sembra una leggenda metropolitana. Dice che Pietro a 15 anni sfidava le macchine a gare di velocità. All’epoca, al sud Italia, le macchine erano poche e non erano veloci come oggi. Pietro vinceva contro di loro e con i soldi della scommessa si pagava i biglietti per il cinema.
Vero o no, a 16 anni Pietro si iscrive a una società di atletica e partecipa alle sue prime gare. Il talento si vede. Diventa anche campione italiano juniores sui 200 metri.
Intanto conosce Carlo Vittori. È stato anche lui un atleta e ora fa l’allenatore per la federazione. Vittori vede Pietro, capisce che il ragazzo è un diamante grezzo, ha molto talento per la corsa e ha bisogno di svilupparlo bene.
Gli fa una proposta: vieni con me, ti faccio diventare un campione. Pietro accetta. Nel frattempo ha finito la scuola superiore, ha preso il suo diploma, è pronto a fare una scelta di vita. Quella dell’atleta professionista.
Si trasferisce a Formia, una cittadina di mare a metà strada tra Roma e Napoli dove c’è un centro federale. Lì comincia ad allenarsi con Vittori.
Dopo avere partecipato a varie competizioni europee e mondiali, nel 1972 arriva l’esordio più importante. Pietro Mennea va a Monaco di Baviera, ci sono le Olimpiadi.
Sulle piste da corsa di Monaco, Mennea arriva ancora giovane e inesperto. Ha solo 20 anni e il suo risultato migliore a livello internazionale è il sesto posto nei 200 metri agli europei di Helsinki dell’anno prima.
Nel frattempo però è cresciuto, si è allenato. Un po’ a sorpresa, alle Olimpiadi si qualifica per la finale.
Forse gli tremano le gambe. Forse il cuore gli batte fortissimo. Dopotutto, è la prima finale olimpica. Mennea però corre forte, fortissimo e ottiene un risultato insperato. La medaglia di bronzo. Davanti a lui, il corridore sovietico Valerij Borzov e l’americano Larry Black.
Qualcuno dirà: è solo un bronzo, la storia si ricorda solo dei vincitori. Forse lo pensa anche Mennea. Perché da quel momento comincia a lavorare più duro di prima, per diventare campione.
Una medaglia d’oro arriva due anni dopo. Non sono le olimpiadi, ma gli europei. Si corre a Roma, davanti al pubblico di casa, Mennea punta soprattutto alla sua gara: i 200 metri. E vince.
Nei due anni successivi i risultati non sono eccezionali. Mennea si mostra molto serio, preoccupato. Ormai è famoso, quindi la tv e la radio lo seguono. Lui accetta le interviste, anche se non sembra molto contento. Dichiara che ai Giochi olimpici successivi, nel 76 a Montreal, non parteciperà.
Il pubblico non la prende bene, però. Si aspettano che Mennea vada in Canada, partecipi e porti medaglie. Lui allora si fa convincere, alla fine accetta e parte per Montreal. Da quelle Olimpiadi però, torna a mani vuote. Nei duecento metri arriva quarto, sotto il podio. Nella staffetta 4×100, anche.
I tifosi sono un po’ delusi, i giornalisti anche. Si chiedono: le medaglie che Mennea ha vinto fino ad ora sono state solo un fuoco di paglia? O è un campione vero?
Pietro lo sa. Dietro la sua faccia seria, conosce la verità. Verrà fuori presto.
Mennea non è contento di come stanno andando le cose. Arrivare quarto, quindi senza medaglia, alla sua seconda Olimpiade è una battuta d’arresto nei suoi piani. Così per tre anni si allena duramente, e nel frattempo studia.
Non dimentichiamo quello che abbiamo detto all’inizio. Per il giovane Pietro Mennea, figlio del sud Italia del dopoguerra, è fondamentale trovare una stabilità per il futuro. La carriera di uno sportivo è bella e intensa, ma anche molto breve. Vuole prepararsi anche per dopo. Per quando non avrà più la forza di correre. Così si iscrive a scienze politiche e inizia il suo percorso universitario.
Studi e sport non sono mondi separati, anzi. In quanto studente, Pietro Mennea partecipa nel 1979 alle Universiadi, ovvero una specie di Olimpiadi riservate agli studenti universitari. Quell’anno, si tengono a Città del Messico.
Non sappiamo bene come arriva Mennea, quali sono le sue aspettative o le sue speranze. Però lui corre. Veloce. Velocissimo. Più veloce dei suoi avversari. Più veloce di tutti gli altri prima di lui nella storia. Vince la medaglia d’oro e conquista il record del mondo sui 200 metri. 19 secondi e 72 centesimi.
È un tempo incredibile che è stato per 17 anni il record del mondo e che è ancora oggi il record italiano ed europeo sui 200 metri.
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Con questo risultato, è chiara a tutti una cosa. Pietro Mennea è il favorito assoluto per la medaglia d’oro a Mosca nel 1980.
Nella capitale sovietica ci sono delle olimpiadi un po’ strane. È assente il padrone di casa più atteso, Valerij Borzov, vecchio rivale di Mennea. Si è ritirato per sempre dallo sport l’anno prima, per problemi fisici.
Mancano anche gli atleti americani. Tutti. Con una scelta molto discussa a livello internazionale, gli Stati Uniti hanno boicottato i Giochi di Mosca come segno di protesta contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan. È chiaro che senza Borzov e senza americani, Mennea è ancora di più il favorito per la vittoria finale.
Gli avversari rimasti però non sono certo delle controfigure. C’è il giamaicano Quarrie, campione olimpico in carica, e il britannico Allan Wells, campione olimpico nei cento metri. La pressione è alle stelle.
La gara l’abbiamo già raccontata. In quella sera calda moscovita, Mennea parte un po’ lento, come sempre. Non è mai stato un campione nello scatto. Quando comincia ad accelerare, però, lo fa meglio di tutti. Quella sera va proprio così. Dopo i primi cento metri, Pietro accende il turbo, raggiunge e supera Wells accanto a lui. Stacca Quarrie sulla corsia più lontana. Ce l’ha fatta. È campione olimpico. Ha vinto la medaglia d’oro ai Giochi.
I suoi occhi quella sera, subito dopo la vittoria. Pochi secondi dopo avere tagliato per primo il traguardo, nella finale olimpica dei 200 metri, lui già lo sapeva. Sapeva che quella era la fine. Aveva raggiunto il massimo e non c’era altro da fare.
È questione di tempo. Poco tempo. Pietro Mennea annuncia il ritiro. Ha 28 anni, probabilmente potrebbe correre ancora. Solo che lui non ne ha voglia. Ci sono atleti che non potrebbero mai rinunciare all’adrenalina della competizione e all’entusiasmo del pubblico. Lui no. Vuole smettere. Concentrarsi sullo studio. Prepararsi al lungo futuro che lo aspetta senza sport.
È una scelta tormentata. Non convinta al cento per cento. E infatti Pietro torna in pista. Vince una medaglia di bronzo ai primi mondiali di atletica della storia, nell’83. E l’anno dopo vola a Los Angeles per la sua quarta Olimpiade. Le energie, non sono più quelle di quattro anni prima. Mennea conquista la finale, ma poi arriva soltanto settimo. Annuncia di nuovo il ritiro.
Ancora una volta, non è una decisione definitiva. Ancora una volta la pulce nell’orecchio lo convince a tornare. Lo fa a Seoul, per le Olimpiadi del 1988. Solo che ormai ha 36 anni. Supera il primo turno di qualificazione. Poi però si ritira dalla gara. E dallo sport attivo. Questa volta, definitivamente.
Nello stesso anno, ottiene un altro risultato a cui teneva molto. Compie i suoi studi e si laurea in scienze politiche. Si interessa anche di legge, scienze motorie, persino di letteratura. Sembra non averne mai abbastanza.
Dopo la fine della sua carriera sportiva fa mille cose. Entra in politica, per esempio, diventando deputato al parlamento europeo. Insegna all’università, tiene conferenze, apre anche uno studio legale insieme alla moglie. Nel 2013, a soli 60 anni, muore a causa di un tumore al pancreas.
Nonostante abbia fatto tante cose, anche importanti, dopo il ritiro, Pietro Mennea è soprattutto un simbolo dello sport italiano. Un ragazzo con la faccia seria, che ha visto la strada dritta davanti a sé e ha iniziato a correre veloce. Verso i suoi obiettivi.
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