108 – Viaggio nel mondo dei dialetti italiani
Trascrizione dal podcast Salvatore racconta, episodio pubblicato il 15 aprile 2023.
Distribuito con licenza Creative Commons CC-BY 4.0 non commerciale.
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Nel 2019 è uscito nelle sale il film Il traditore, diretto da Marco Bellocchio.
Al centro c’è la storia vera di Tommaso Buscetta, un mafioso pentito che ha deciso di collaborare con la giustizia e ha contribuito all’arresto di molti pezzi grossi di Cosa Nostra che poi sono finiti davanti a un giudice durante il maxi-processo di Palermo.
Il film è molto accurato e racconta il processo nei minimi dettagli. Uno dei quali colpisce spesso le persone non italiane che lo guardano.
Il maxi-processo si svolge a Palermo, ma i giudici arrivano da tutta Italia. Uno di loro a un certo punto perde la pazienza.
L’imputato di fronte a lui parla in siciliano stretto e il giudice sbotta. Non capisce niente e gli chiede, per favore, di parlare in italiano.
Ed ecco la domanda che si pongono molte persone.
Ma il siciliano è così distante dall’italiano?
Potrei rispondere con una sola parola: sì.
La situazione però è più complessa.
In questo episodio parliamo del rapporto tra l’italiano e i dialetti.
A partire dalla definizione di cosa sono i dialetti, quali sono, come funzionano e quale ruolo hanno nella comunicazione.
Capire come mai un giudice romano non è in grado di capire un imputato siciliano.
Ma anche per scoprire un mondo antico, intimo ed emotivo che arricchisce la lingua italiana di suoni, storie ed emozioni.
Sono partito da un esempio con il siciliano perché è un caso che capita spesso.
C’è la percezione che il siciliano o il sardo siano per loro natura più distanti dall’italiano standard. E che lì, e solo lì, si parla in modo diverso rispetto al resto d’Italia.
In realtà, avrei potuto citare altri esempi simili e molto lontani dalla Sicilia.
Per esempio, il film L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi. La storia parla di varie famiglie contadine delle campagne vicino a Bergamo e gli attori, nella versione originale, parlano tutti in bergamasco. Per rendere il film comprensibile agli spettatori, è stato necessario doppiare tutte le voci in italiano in post-produzione.
Ecco, se l’idea che in Sicilia si parli in modo diverso rispetto al resto d’Italia ci sembra plausibile, che si parli in modo diverso a Bergamo può sembrare più incredibile.
In realtà, si tratta dello stesso fenomeno, quello dei dialetti.
Ne abbiamo parlato un po’ già nell’episodio precedente dedicato alla lingua, il numero 100.
I dialetti non sono versioni modificate dell’italiano, ma lingue diverse, anche se strettamente imparentate.
Se le chiamiamo dialetti è per una convenzione, secondo la quale il titolo di “lingua” spetta alle lingue nazionali. Per tutte le altre, usiamo la parola dialetti
Da un punto di vista scientifico, non ci sono differenze. I dialetti non sono inferiori alle lingue per quanto riguarda la struttura, la grammatica e nemmeno la tradizione.
Per questo motivo, molte persone non amano usare la parola dialetti. Pensano che sminuisca il valore delle lingue regionali.
In generale, sono d’accordo.
Io però qui li chiamerò dialetti. Per semplicità e per chiarezza, di certo non per disprezzo.
Fatta questa precisazione, andiamo al sodo.
Da dove arrivano i dialetti italiani?
La storia parte da lontano, dal disfacimento dell’impero romano d’occidente.
All’epoca parlavano tutti in latino, ma sarebbe un errore pensare che le persone normali parlassero lo stesso latino di Cicerone.
Il latino popolare era distante da quello classico e le persone meno istruite lo parlavano in modo differente a seconda della regione in cui vivevano. Magari si mischiava con le lingue dei popoli che c’erano prima dei romani e poi ha finito per mischiarsi anche con le lingue dei popoli che sono arrivati dopo.
Così, mentre il latino scritto si è cristallizzato, i vari latini parlati in Italia si sono trasformati diventando pian piano sempre più distinti tra loro. A maggior ragione, dato che non esisteva più l’impero e gli spostamenti tra varie regioni erano più rari, le lingue sono diventate sempre più locali.
Sono diventate i volgari, come si dice con una parola tecnica.
Tutti relativamente comprensibili tra loro, eppure allo stesso tempo tutti diversi.
Già nel medioevo esisteva, almeno per le classi sociali più colte, l’idea di un’identità nazionale italiana. Anche se la penisola era politicamente divisa e anche se tutti in realtà parlavano in modo diverso. Del resto, gli intellettuali tra loro si scrivevano tra loro usando l’unica lingua in cui si poteva scrivere. Ovvero il latino.
Le cose sono cambiate soltanto a metà del Medioevo, quando un certo Dante Alighieri ha dimostrato che si potevano scrivere testi belli e importanti, anche in volgare. O perlomeno, nel suo volgare, quello fiorentino, che poi ha fatto carriera fino a diventare l’italiano che parliamo oggi.
Insomma, uno dei tanti volgari italiani, grazie al suo prestigio culturale, lentamente ma inesorabilmente ha preso il posto del latino come lingua letteraria ed è diventato pian piano la lingua nazionale.
E nel frattempo, gli altri volgari?
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Sono diventati dialetti. Non sono lingue ufficiali, non si usano quasi mai per scrivere leggi o regolamenti. Raramente si usano per scrivere libri e giornali, sono soprattutto le lingue della vita quotidiana e familiare.
Come abbiamo detto nell’episodio 100, in Italia esiste una situazione chiamata di diglossia. Ovvero, la lingua nazionale e quella locale convivono, semplicemente si usano in contesti diversi.
La diglossia però non è allo stesso livello in ogni regione. Ci sono parti d’Italia in cui il dominio del dialetto è minore o quasi inesistente e altre parti dove invece è molto largo. Dipende soprattutto da questioni storiche e culturali.
Ma quali sono i dialetti italiani? Sono tutti diversi dall’italiano standard?
Contare tutti i dialetti e le parlate d’Italia è quasi impossibile.
Possiamo però dividerle per aree. Con una suddivisione comune, anche se un po’ datata, consideriamo dialetti settentrionali -cioè del nord- tutti quelli parlati al di sopra della linea immaginaria tra le città di La Spezia (in Liguria) e Rimini (in Emilia-Romagna).
A dire il vero non sono tutti strettamente imparentati tra loro. Le parlate della Lombardia, dell’Emilia e del Piemonte hanno in effetti dei punti in comune. Le parlate venete e il friulano invece si differenziano un po’.
Senza entrare in dettagli tecnici, puoi riconoscere i dialetti settentrionali da cose tipo le parole che finiscono in consonante e dalla presenza di vocali che in italiano standard non esistono. Esempio perfetto, la parola “lombardo” che suona più o meno “lumbard”.
Sotto la linea La Spezia-Rimini si trovano i dialetti centrali. Come per esempio il toscano. Dato che l’italiano standard viene dal toscano letterario medievale, il toscano di oggi -tra le parlate regionali- è quella che più si avvicina alla lingua nazionale.
Attenzione. Si avvicina ma non è uguale. Soprattutto a livello semantico, ci sono parole che ai parlanti toscani sembrano standard e invece sono regionali. Per esempio? Lapis al posto di matita, acquaio al posto di lavandino, granata al posto di scopa.
E poi c’è il fenomeno più famoso del toscano. Ovvero la cosiddetta gorgia, quella per cui alcuni suoni velari vengono aspirati. Il risultato dà cose come “la hasa”, “la harne” e il famosissimo esempio de “la hoha hola”.
L’area centrale comprende anche i dialetti dell’Umbria, di parte del Lazio e di parte delle Marche.
I dialetti centrali, come il toscano, sono tendenzialmente molto vicini all’italiano standard. In generale, la regola è che più ci si allontana da Firenze e più i dialetti si allontanano. Ha senso, no?
Il caso di Roma è quello più particolare. Nella capitale infatti non esiste un vero e proprio dialetto, ma solo un modo molto marcato di parlare l’italiano. Quindi, a parte l’uso di parole peculiari, per qualsiasi parlante in Italia non è un problema capire il romanesco.
Da Roma ad Ancona, nelle Marche, passa un’altra linea. Quella che segna l’inizio dei dialetti meridionali.
Il più riconoscibile di tutti è ovviamente il napoletano. Grazie al ruolo di Napoli nella storia dell’arte, della cultura e della musica, i segni distintivi di un parlante napoletano sono facilmente riconoscibili anche se questo non significa che siano comprensibili. Un prodotto molto popolare come il film Gomorra, dedicato alla camorra campana, ha bisogno dei sottotitoli per essere capito anche tra i parlanti italiani.
Nel Salento, la parte finale della Puglia, per capirci, come anche in Calabria e in Sicilia si parlano i cosiddetti dialetti meridionali estremi. Che hanno tra loro molti elementi in comune, soprattutto per quanto riguarda l’uso delle vocali.
Cosa è rimasto fuori? La Sardegna.
Che è un po’ un caso a parte. Perché esistono almeno tre dialetti sardi, ma anche una lingua sarda, compresa su tutta l’isola e che -appunto- ha ricevuto a livello ufficiale lo status di lingua. A segnare, in modo ancora più chiaro, il suo sviluppo totalmente indipendente dalle altre lingue italiche. Del resto, la geografia ha aiutato.
Ecco, questa è la mappa, molto molto sintetica, dei dialetti italiani.
Ma oggi chi li parla?
Come detto, in tutte le parti d’Italia esiste una forma di diglossia dove dialetto e italiano standard convivono occupando aree diverse della comunicazione, e a volte mischiandosi un po’.
Va detto anche che la situazione non è sempre uguale. Ci sono luoghi dove il dialetto è più diffuso e altri in cui è praticamente scomparso.
Vi faccio un esempio pratico. Piazza Duomo a Milano. Quante persone sentirete che parlano tra loro in dialetto milanese? Nessuna.
Facciamo lo stesso esempio a Via Toledo a Napoli. Quante persone parleranno in napoletano? La maggior parte.
Perché succede? Per tanti fattori. Milano è una città ormai cosmopolita, i milanesi doc da generazioni sono pochi. Soprattutto tra le giovani generazioni, c’è la convinzione che il dialetto sia una cosa da vecchi, provinciale, anche un po’ ignorante.
Deriva da decenni di pregiudizi sul tema. Spesso in buona fede. I maestri e le maestre di scuola elementare per tanto tempo hanno avuto a che fare con bambini che arrivavano da famiglie poco istruite, dove si parlava il dialetto. E per insegnare a questi bambini a scrivere e parlare in italiano, era necessario combattere un po’ il dialetto dentro di loro.
Aveva senso, certo, ma il risvolto della medaglia è che così alcuni dialetti rischiano di scomparire.
Perché a Napoli non succede? Perché i napoletani sono una comunità molto unita, legata al proprio territorio e molto orgogliosa della propria identità.
Questo fa sì che il napoletano sia vivo. Lo si può sentire per strada, nei locali, tra le persone. Si parla in napoletano con la famiglia, con i vicini, al negozio sotto casa. E si parla napoletano per esprimere emozioni, scrivere poesie, canzoni. Perché i napoletani lo sanno bene che a parlare -anche- in dialetto non c’è davvero niente di male.
È vero che i dialetti oggi resistono di più al sud che al nord. In Sicilia, in Puglia o in Calabria è normale anche per le generazioni più giovani usare il dialetto in famiglia. A Bologna, Perugia o Torino è quasi impensabile. L’unica eccezione vera, a nord, è il Veneto. Anche lì, come a Napoli, per un’identità locale molto forte, il dialetto è molto vivo e usato. Anche per capire chi è “dei nostri” e chi invece è un forestiero.
Io il dialetto non lo parlo, nonostante lo capisca perfettamente. Non ho mai imparato a usarlo anche se intorno a me lo sento in continuazione. Oggi al massimo uso parole in siciliano qua e là, ma soprattutto per scherzare. Provare a usarlo in una conversazione intera, sarebbe una cosa per me totalmente innaturale. Come se qualcun altro parlasse con la mia bocca e con la mia voce.
Nonostante ciò, il siciliano per me è importante. Lo immagino come una scatola di latta, di quelle dove bambini tengono le loro cose più preziose. Lì dentro ci sono le parole delle emozioni più semplici, ma anche le più belle. Emozioni spesso sussurrate, o a volte gridate, che si possono esprimere solo in dialetto perché è in dialetto che sono nate e che ci sono state tramandate.
Ecco perché i dialetti sono belli e preziosi. Oggi non impediscono a nessuno di parlare in un italiano corretto, ma arricchiscono la vita emotiva di parole e sentimenti antichi, dove l’italiano ancora non c’era e dove oggi sarebbe un ospite estraneo.
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