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106 – Le Brigate Rosse, un inizio

Trascrizione dal podcast Salvatore racconta, episodio pubblicato l’1 aprile 2023.

Distribuito con licenza Creative Commons CC-BY 4.0 non commerciale.

Per ascoltarlo, clicca qui.

Brigate Rosse Salvatore racconta Un podcast in italiano per stranieri semplice ma non banale

È un giorno di inizio estate. Da queste parti, si coltiva la lavanda. Quindi, se volete, potete immaginarne il profumo.

C’è una vecchia casa di campagna, isolata. Dentro ci sono tre persone. Due uomini e una donna.

La donna e uno degli uomini sono armati. L’altro uomo è impaurito. Perché la coppia lo ha rapito e lui è il loro ostaggio.

È chiaro che è la donna quella che comanda. Ha gli occhi grandi, i capelli corti, l’aria un po’ stanca.

L’azione è andata bene. Eppure non si sente sicura. Perde per un po’ la concentrazione e non si accorge del rumore di un’auto in avvicinamento.

E poi all’improvviso qualcuno bussa alla porta. Sono carabinieri. Stanno perlustrando la zona.

La donna reagisce nervosamente.

Lei e il suo complice decidono di scappare. Lanciano una bomba a mano contro la porta. Nel trambusto corrono verso la loro macchina. Ma i carabinieri sparano e feriscono la donna.

Lei però sembra poter resistere, sale in macchina e si mette alla guida. Con il suo complice seduto accanto a lei. Ma sono nel panico e sono feriti. Fingono di arrendersi, ma poi continuano a sparare.

Il complice della donna scappa, a piedi. Lei continua a combattere. Ma è sola contro tre carabinieri. Alla fine, le ferite sono troppo gravi. La donna si accascia e muore.

Sembra una scena da film western.

Ma questo è Salvatore racconta, e infatti è una storia italiana.

L’uomo preso in ostaggio era Vittorio Gancia, produttore del famoso spumante che porta il suo nome.

Non conosciamo il nome dell’uomo fuggito. Conosciamo però quello della donna. Margherita Cagol, detta Mara.

Nata a Trento, cattolica praticante, fervente comunista. Fondatrice e dirigente della più potente organizzazione terroristica di sinistra degli anni ’70 italiani. Le Brigate Rosse.

La morte violenta di Mara Cagol arriva all’improvviso, nel giugno del 1975. Cambia la storia delle Brigate Rosse e, di conseguenza, anche quella di tutta Italia.

Le BR, come le chiamiamo per semplicità, hanno creduto in idee radicali e le hanno portate avanti con i proiettili, le bombe e gli omicidi. Il giudizio storico su quello che hanno fatto è molto duro, a volte controverso.

Una cosa è sicura. Senza le Brigate Rosse, oggi vivremmo in un’Italia molto diversa. Impossibile dire se migliore o peggiore.

L’unica cosa da fare adesso è prendere quella storia e raccontarla.

Come abbiamo raccontato negli scorsi episodi della serie Storia, dalla fine degli anni 60 l’Italia era tutto meno che un Paese tranquillo.

L’Italia degli anni 70 era malata di violenza e la politica non sapeva trovare risposte.

Tutto era cominciato con le proteste degli studenti nel 1968. Improvvisamente, quella generazione si era ribellata. In modo coordinato, consapevole. Aveva mostrato che la società italiana era cambiata e chi comandava non riusciva a stare al passo.

L’Italia era diventata urbana e industriale. Le città erano sempre più grandi, le fabbriche sempre più importanti. L’Italia contadina degli anni ’50 stava diventando secondaria, mentre ne stava nascendo un’altra. L’Italia degli operai.

Sempre più stanchi e frustrati, ma anche più consapevoli. Persone che vivevano nelle stesse città dei loro capi e dei loro padroni. Che li vedevano diventare sempre più ricchi, mentre loro restavano sempre poveri, stremati e arrabbiati.

E questi operai volevano lottare, ottenere di più. All’inizio lo facevano come si era fatto sempre, attraverso i loro rappresentanti: i sindacati.

Che andavano a parlare con i dirigenti delle fabbriche, oppure a Roma, con i pezzi grossi della politica. E tornavano sempre con qualche risultato, qualche piccola vittoria. Ma erano compromessi al ribasso.

Non poteva bastare.

Cresceva la consapevolezza che il problema era nei rapporti di produzione. Gli operai si dicevano: ma se il lavoro lo facciamo tutto noi, perché sono loro a prendersi la fetta più grande della torta?

C’era fermento nelle fabbriche. Soprattutto in quelle più grandi. A Genova, a Torino, soprattutto a Milano.

I gruppi di operai più radicali, stanchi del ruolo di partiti e sindacati, avevano iniziato a organizzarsi da soli. E avevano imparato una cosa dagli studenti che avevano iniziato a protestare prima di loro.

Occupare le fabbriche, come gli studenti prima avevano occupato le università.

E poi, continuare a protestare. Con gesti estremi, anche violenti se necessario.

In questo humus di idee rivoluzionarie nascono gruppi che teorizzano, e mettono in atto, la lotta armata.

Si ispirano alla rivoluzione culturale di Mao e alle esperienze di guerriglia nell’America Latina.

Uno di questi gruppi viene ispirato dalle lotte degli operai, ma viene organizzato soprattutto da due studenti arrivati da Trento, la città dov’era iniziato il Sessantotto.

Come simbolo, scelgono una stella. Per il nome, scelgono qualcosa di chiaro. Il loro è un partito, ha un obiettivo politico, la rivoluzione. Ma è anche un partito armato. Agisce come un esercito. Come una brigata.

Non si sa esattamente quando né dove, ma è così che nascono le Brigate Rosse.

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All’inizio le azioni del gruppo sono isolate e un po’ confuse, non si distinguono molto da quello che succede in generale nel caos degli anni 70.

Bruciano le macchine di alcuni dirigenti, sequestrano simbolicamente per qualche ora il capo di una fabbrica, fanno qualche rapina in banca per autofinanziarsi.

Come detto, si ispirano a Mao, all’idea di “colpirne uno per educarne cento”. Con i loro atti, vogliono dimostrare a tutta la classe operaia che, volendo, la rivoluzione si può fare.

Le forze dell’ordine all’inizio non si preoccupano particolarmente di loro. Sono pochi, isolati. E nemmeno molto bravi a nascondersi.

Nel 1972, la polizia di Milano organizza una retata e arresta un bel po’ di loro.

Quelli che rimangono, allora, prendono una decisione radicale.

Ci credono davvero in quello che fanno. Sentono che i rapporti di produzione in fabbrica stanno cambiando, e che la rivoluzione ha solo bisogno di essere guidata.

Decidono di lasciare tutto quello che hanno. Lavoro, famiglia, amici, persino i propri nomi.

Iniziano a usare documenti falsi, a vivere nascosti. Per citare un’espressione usata al tempo, entrano in clandestinità.

Da quel momento, non è facile incontrare le Brigate Rosse. Lavorano sotto traccia, senza farsi vedere. Organizzano un gruppo in ogni città dove possono trovare consensi tra gli operai. I loro gruppi si chiamano colonne, un’altra parola del gergo militare. C’è una colonna per ogni città, autonoma da tutte le altre. In modo che, se una viene scoperta, le Brigate Rosse possono continuare a funzionare.

La prima azione eclatante delle BR avviene a Genova. Che è una città operaia come e più di Milano.

Nel 1974, a Genova c’è un processo. Gli imputati sono i membri di un altro piccolo gruppo terroristico di sinistra attivo in quegli anni, chiamato GAP.

Le Brigate Rosse decidono di rapire il magistrato che nel processo si occupa dell’accusa, Mario Sossi.

Questa volta, non è un’azione simbolica di qualche ora, ma un rapimento con tutti i crismi. Le BR rapiscono Sossi alla fermata dell’autobus e lo tengono prigioniero per più di un mese.

In cambio della sua liberazione non vogliono soldi, ma la libertà dei compagni dei GAP sotto processo.

Inizia un braccio di ferro. Lo Stato non vuole cedere e le BR non sono ancora così forti.

Alla fine Sossi torna in libertà, ma le BR non ottengono nulla in cambio.

O forse sì. Non hanno ottenuto la liberazione dei loro compagni, ma hanno ottenuto visibilità e riconoscibilità. Nelle fabbriche cresce la simpatia nei loro confronti, aumenta il numero di persone che a quell’idea della rivoluzione inizia a crederci davvero.

Intanto però ci crede anche lo Stato italiano. Finora ha sottovalutato le BR, ma evidentemente ha fatto male. Saranno pochi e poco organizzati, ma sono riusciti a rapire un magistrato e a tenerlo prigioniero per un mese facendola franca.

Non è accettabile. Bisogna fare qualcosa.

Entra in azione un gruppo speciale dei carabinieri. Si chiama Nucleo Speciale Antiterrorismo e ha come primo obiettivo scoprire e sgominare le Brigate Rosse.

Riesce a farlo, in parte, nell’autunno del 1974.

In quei mesi, i brigatisti hanno un nuovo alleato. Sembra surreale, ma è un frate, un francescano. Uno che è partito missionario per il Sudamerica e lì si è unito ai gruppi rivoluzionari e ha imparato a fare la guerriglia. Nel mondo della sinistra radicale è molto ammirato, lo chiamano tutti Frate Mitra.

Le BR sono molto sospettose verso chiunque, come è normale nella loro condizione. Eppure quando arriva Frate Mitra, lo accolgono a braccia aperte.

Loro sono molto motivati e convinti, ma di guerriglia sanno poco e niente. Uno esperto come Frate Mitra gli serve come il pane.

C’è solo un piccolo problema. Il frate guerrigliero è un infiltrato. Collabora con la giustizia per farli arrestare.

L’8 settembre del 1974, in una spettacolare azione di polizia, i carabinieri scoprono e arrestano due dei più importanti dirigenti delle Brigate Rosse.

A quel punto, in libertà restano solo due grandi capi delle BR. Una è proprio Mara, l’altro è un uomo di cui finora non abbiamo parlato. Si chiama Mario Moretti.

Da loro, comincia il secondo capitolo, molto più violento, della storia delle BR. L’attacco al cuore dello Stato.

L’arresto di due dirigenti per le BR è un duro colpo. Ma, per loro fortuna, la divisione in colonne fa sì che quelli rimasti in libertà possano continuare a operare.

C’è un problema, però. L’energia rivoluzionaria che arrivava dalle fabbriche sta iniziando a diminuire. I grandi padroni delle fabbriche si stanno riorganizzando, per gli operai non c’è più tanto spazio di lotta come c’era pochi anni prima.

Cosa fare allora? Ritirarsi? Nemmeno per sogno.

Mara Cagol e Mario Moretti, i due leader rimasti in libertà, continuano a teorizzare la rivoluzione.

È difficile capire oggi quanto fossero davvero lucidi e in contatto con il mondo reale. Vivevano in clandestinità, parlavano quasi solo tra loro, si ripetevano parole d’ordine e slogan come dischi rotti.

Un’energia di cambiamento c’era sicuramente. Ma davvero loro avrebbero potuto guidarla?

I brigatisti rimasti ne sono convinti, anzi straconvinti.

Soltanto, devono cambiare un po’ i loro obiettivi, in compenso. Lottare in fabbrica non basta, serve combattere lo Stato.

Nel 1975 sono in grado di organizzare un’altra grande azione terroristica. Assaltano il carcere di Monferrato e liberano tra gli altri Renato Curcio, il marito di Mara.

Ormai sono bravi a procurarsi le armi e anche a usarle. Organizzano altri rapimenti e attentati. Nei confronti di giudici, giornalisti, politici. Quelli che loro chiamano in modo dispregiativo “servi dello Stato”.

Hanno sempre un disperato bisogno di soldi. La lotta armata costa, e i fondi ricevuti da chi in segreto sostiene la loro lotta non sono sufficienti.

Continuano a fare quello che sanno fare bene. Rapire ricchi imprenditori per poi potere chiedere un riscatto.

È quello che provano a fare con Vittorino Gancia, il giorno da cui abbiamo iniziato la nostra storia.

Quel giorno qualcosa va storto. Un dettaglio sciocco, un errore di calcolo, che ha portato alla morte di Mara.

Ma la morte i brigatisti l’avevano messa in conto. Quella, per loro, è una guerra.

In guerra si muore, e si uccide.

Fino a quel momento, le BR non avevano ucciso nessuno. O meglio, un paio d’anni prima due brigatisti avevano sparato a due militanti neofascisti uccidendoli, anche se l’azione non era stata prevista né coordinata.

Nessuno ci aveva visto niente di male, in ogni caso. La morte, come detto, è nell’ordine delle cose.

E per chi combatte lo Stato, diventa accettabile anche uccidere chi lavora per lo Stato.

La prima vittima vera delle BR arriva nel ‘76. È Francesco Coco, fa il magistrato. Era quello che aveva negoziato con loro durante il sequestro Sossi, che aveva promesso la liberazione degli imputati, ma che alla fine si era rimangiato la parola.

L’8 giugno di quell’anno, il magistrato Coco si trova assieme a due agenti di scorta. Lo raggiungono alcune persone che iniziano a sparare, uccidendo tutti e tre gli uomini.

Il giorno dopo, pubblicamente, le Brigate Rosse rivendicano l’attentato.

È come se qualcuno, improvvisamente, avesse premuto sull’acceleratore. È diventato accettabile, e anzi naturale, uccidere le persone per la strada. Come in una specie di vendetta mafiosa.

Sono gli anni 70. Succede comunque. Ma questo non vuol dire che non faccia paura.

Tutti, nella società, condannano i gesti delle Brigate Rosse. Anche, anzi soprattutto, il Partito Comunista italiano. Che da queste azioni si sente screditato.

Le BR non hanno alleati. Nessuno approva apertamente le loro azioni. Eppure continueranno a operare. A rapire, colpire e uccidere.

Sempre più chiuse in sé stesse, sempre più fanatiche, più convinte di un obiettivo da perseguire.

L’obiettivo di spostare la lotta ancora di più dalle fabbriche al cuore dello Stato.

Per farlo, andranno a Roma. Lontano dalle fabbriche, ma vicino al potere.

Arriveranno al massimo della loro potenza, e allo stesso tempo daranno inizio al loro declino.

Ma di questo, parleremo un’altra volta.

 

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