fbpx

103 – 1974, l’anno del divorzio e delle bombe

Trascrizione dal podcast Salvatore racconta, episodio pubblicato l’11 marzo 2023.

Distribuito con licenza Creative Commons CC-BY 4.0 non commerciale.

Per ascoltarlo, clicca qui.

1974, divorzio e bombe Salvatore racconta Podcast in italiano per stranieri semplice ma non banale

Per iniziare la storia di oggi, dobbiamo partire da una vicenda personale.

È una notte di agosto e Marco la sta passando in treno.

Chi è Marco? È un ragazzo di 14 anni, figlio di un ferroviere di Merano, in Sud Tirolo.

E quella notte, assieme ai suoi genitori, al fratello e alla sorella, sta tornando a casa in treno da Firenze, dove hanno passato il fine settimana.

Il treno su cui sono saliti è l’Espresso 1486 partito da Roma Termini e diretto a Monaco di Baviera. Passa per Firenze, poi Bologna, e infine sale su verso nord, fino ad attraversare il Brennero per arrivare in Germania.

Chissà a cosa pensava Marco quella sera, prima di addormentarsi in treno.

Certo, quell’anno ne erano successe di cose!

Negli Stati Uniti era scoppiato lo scandalo Watergate, che aveva messo la pietra tombale sulla carriera di Richard Nixon.

In Italia, i cittadini con un referendum avevano detto chiaro e tondo che volevano una legge sul divorzio.

Ma a queste cose Marco sicuramente non ci pensava. Al massimo, i suoi genitori. A 14 anni, che vuoi che te ne importi di presidenti americani e di divorzio.

Forse Marco avrà pensato a i mondiali di calcio finiti poche settimane prima. Li aveva vinti la Germania Ovest e l’Italia aveva fatto una magra figura. Eliminata subito, nella fase ai gironi, dopo una sconfitta contro la Polonia in stato di grazia.

A Marco piaceva il calcio? Questo non lo sappiamo e non lo sapremo mai.

Perché quella notte in treno, la notte del 4 agosto del 1974, Marco Russo è morto. Assieme ad altre 11 persone, compresi i suoi genitori. Suo fratello e sua sorella, invece, sono rimasti feriti ma sono sopravvissuti. Assieme ad altre 46 persone.

Vittime di quello che forse all’inizio poteva sembrare un incidente, ma che invece lo era. Era un attentato terroristico.

È scoppiata una bomba sul treno su cui viaggiavano. L’Espresso 1486, da lì in poi conosciuto con il suo nome proprio. L’Italicus.

La bomba dell’Italicus è l’ultima bomba neofascista degli anni ’70, anche se -purtroppo- non l’ultima in assoluto.

È arrivata nell’agosto del 1974, un anno incredibile per la storia italiana.

Iniziato con un referendum di libertà, continuato con due bombe neofasciste e concluso con i primi omicidi firmati dal gruppo comunista armato delle Brigate Rosse.

Marco Russo questa storia l’ha vissuta di striscio, non ha fatto in tempo a capirla e ne è stato travolto. Oggi, noi proviamo a raccontarla.

Nell’ultimo episodio della serie Storia di Salvatore racconta, abbiamo già detto come l’inizio degli anni ’70 fosse stato all’insegna della violenza politica. Scontri per le strade, omicidi, tentativi di colpi di stato. E in mezzo a tutto questo, un governo incapace di reagire.

Per la verità, qualcosa -lentamente e sotto la cenere– stava iniziando a succedere a livello politico.

Ad esempio, il governo aveva capito che i movimenti di estrema destra come Ordine Nuovo erano pericolosi e che era necessario fermarli. Nonostante i neofascisti avessero, come è stato dimostrato, molti alleati segreti nei palazzi del potere, il governo era riuscito a dichiarare Ordine Nuovo fuorilegge. Un gesto di buon senso, ma che avrebbe causato una vendetta feroce. Ci arriveremo.

Nel frattempo, era successo anche qualcos’altro. Nel 1970, dopo lunghissimi dibattiti, il parlamento aveva approvato una legge storica. Firmata da un deputato socialista e da uno liberale, era la legge che legalizzava il divorzio.

Fino al 1970, infatti, chi voleva divorziare in Italia non poteva farlo. A meno di non avere conoscenze importanti o un bel po’ di soldi. Era possibile ottenere un annullamento dal tribunale vaticano della Sacra Rota, oppure andare a San Marino, la piccola repubblica indipendente vicino a Rimini che permetteva il divorzio ai cittadini stranieri.

Ma queste erano soluzioni per persone privilegiate, non per i comuni mortali.

Non poteva durare a lungo, l’Italia era molto indietro su quel tema rispetto ad altri Paesi occidentali. Soffriva, chiaramente, il grande potere di un partito cattolico come la Democrazia Cristiana e soprattutto la pressione del Vaticano.

Allo stesso tempo, le proteste del Sessantotto avevano aperto una breccia nel tema dei diritti civili. Compresa la libertà di divorziare.

E finalmente anche la politica c’era arrivata, con l’approvazione della legge sul divorzio. Ma quell’approvazione era arrivata tra mille polemiche, con le pressioni contrarie della Democrazia Cristiana, dei partiti di destra e del mondo cattolico extra-parlamentare.

Il parlamento non aveva fatto in tempo a legalizzare il divorzio che erano arrivate a Roma 500.000 firme di cittadini indignati che chiedevano ufficialmente un referendum popolare, perché fossero gli italiani e le italiane a decidere, e non il parlamento.

E così, nel clima infuocato dei primi anni Settanta, i cittadini italiani si divisero anche sul divorzio.

Bisogna ricordare che era un referendum abrogativo, cioè chiedeva la cancellazione di una legge. Chi era d’accordo per la cancellazione doveva votare Sì, e chi era contro doveva votare No. Sembra un po’ contorto oggi, ma all’epoca era chiarissimo.

I promotori del No, cioè quelli che volevano che il divorzio rimanesse legale, erano tutti i partiti laici presenti in parlamento. Liberali, socialisti, socialdemocratici e anche i comunisti.

La posizione del Partito Comunista a favore del No non era così ovvia. I dirigenti erano molto prudenti sui temi dei diritti, lottavano per strappare alla Democrazia Cristiana il voto delle masse contadine, e soprattutto erano quasi tutti uomini e donne cresciuti con valori all’antica, in grande difficoltà con la modernità. Alla fine però capirono che sarebbe stato un suicidio politico non schierarsi e quindi si unirono al fronte del no.

A favore del Sì c’erano naturalmente la Democrazia Cristiana e anche il Movimento Sociale, il partito postfascista guidato dal vecchio amico di Mussolini Giorgio Almirante, uno che pochi anni prima era andato a divorziare in Brasile. Quando si dice la coerenza…

Il referendum si tenne il 12 e il 13 maggio del 1974, dopo una campagna referendaria senza esclusione di colpi in cui vennero coinvolte personalità della politica, del mondo dello spettacolo, dei giornali. Anche con delle posizioni a sorpresa, per esempio quella dell’Associazione Cattolica che si espose per il No sostenendo che i valori cattolici non potevano essere superiori alla laicità dello Stato.

Alla fine, andarono a votare 33 milioni di persone su circa 37 milioni di aventi diritto. Un’affluenza dell’88%. Inimmaginabile oggi.

Il No ottenne il 59,1 % dei voti e quindi il divorzio rimase legale. I divorzisti stravinsero nel centro-nord mentre i sostenitori del Sì arrivavano soprattutto dal sud, dal Veneto e dal Trentino, le aree tradizionalmente più cattoliche del Paese.

Per l’Italia di quegli anni fu l’ennesima prova che la politica non ci stava capendo niente. La società civile era più avanti, aveva le idee chiare ed era pronta a lottare per quello in cui crede.

Persino troppo.

Ti piace Salvatore racconta? Sblocca gli episodi premium

Come detto prima, tra i contrari al diritto al divorzio ci erano anche gli ambienti di estrema destra. Non che fossero particolarmente interessati ai valori cattolici, ma nella loro idea in quegli anni qualsiasi apertura sui diritti era un regalo ai comunisti e non era il caso di incoraggiare lo spirito rivoluzionario dei sessantottini.

Nello stesso tempo, gli ambienti neofascisti più radicali avevano rinunciato all’idea di prendere il potere con un colpo di Stato. Né i tentativi indiretti, come quello di spaventare la popolazione con le bombe come a Piazza Fontana, né quelli diretti come la prova di golpe del principe Borghese avevano funzionato. E l’appoggio di cui godevano tra i generali dell’esercito o dei Carabinieri era sempre minore.

Non avevano smesso di credere che un governo reazionario e violento fosse l’unico modo per fermare quella che chiamavano la deriva comunista dell’Italia, ma era chiaro che avrebbero dovuto cambiare metodo.

Soprattutto dopo lo schiaffo subito pochi anni prima, quando il governo aveva deciso di rendere fuorilegge Ordine Nuovo.

Per i neofascisti italiani, quello era il segnale definitivo: bisogna alzare il livello dello scontro e combattere a volto scoperto. Nessuno ci aiuterà a prendere il potere, allora ce lo prenderemo da soli. Con la violenza.

Arriva il 28 maggio del 1974. Sono passate appena due settimane dal referendum sul divorzio, la tensione si taglia con il coltello. A Brescia, la sezione locale della CGIL, il sindacato più vicino alla sinistra, organizza una manifestazione pacifica contro la violenza neofascista. Al corteo si uniscono molte persone, non solo di sinistra, ma anche moderati e centristi, tutti uniti dal sentimento antifascista e dalla voglia di dire basta a quella vita passata ad avere paura di essere uccisi da una bomba.

A volte il destino è proprio crudele, perché quella mattina a Brescia, a Piazza della Loggia, i neofascisti hanno proprio piazzato una bomba. Che esplode poco dopo le 10, quando la piazza è piena di persone pronte a manifestare. Causa 8 morti e 102 feriti.

Che si uniscono ai 17 morti, uccisi a Piazza Fontana a Milano soltanto cinque anni prima,.

Se quella volta, a Piazza Fontana, tutti avevano dato subito la colpa agli anarchici, questa volta non è davvero possibile avere dubbi. Chi poteva avere interesse a mettere una bomba durante una manifestazione antifascista, se non i fascisti?

L’Italia reagisce mostrando tutto il suo dolore. Ai funerali delle vittime si presenta mezzo milione di persone.

Ma la violenza è come un sasso che scende da una montagna. Quando comincia a rotolare, non si può fermare facilmente. Anzi, più tempo passa, più prende velocità e potenza.

E ritorniamo al 4 agosto. Alla notte dell’Italicus.

Nel vagone dove si trovano il piccolo Marco Russo e la sua famiglia, un gruppo di terroristi neofascisti ha messo una bomba a orologeria. Che esplode nella notte, mentre il treno si trova in una galleria vicino a Bologna. Causa 12 morti, 48 feriti e tantissima paura.

In Italia è diventato normale rischiare di morire andando in banca, in piazza a manifestare, persino salendo su un treno per tornare a casa dopo una vacanza.

Ma come si può vivere in un Paese così?

Ancora una volta, non ci sono dubbi sulle responsabilità neofasciste di questo attentato.

Tanto più che un’associazione che si firma Ordine Nero rivendica la bomba poco tempo dopo, distribuendo volantini con una frase macabra: “seppelliremo la democrazia sotto una montagna di morti”.

In quella situazione, diventa chiaro che la politica del governo è inadeguata. Il sistema fisso che è uscito dalla seconda guerra mondiale, con la Democrazia Cristiana sempre al potere e il Partito Comunista sempre all’opposizione, non funziona più.

Qualcuno comincia a pensare che questi due partiti, i partiti popolari più grandi d’Italia, debbano iniziare a collaborare. Per fare insieme le riforme necessarie a portare il Paese nella modernità. Per trovare finalmente un compromesso sociale. Un compromesso storico, anzi, come lo chiamano giornalisti e politici del tempo.

Cominciano a provarci, in quegli anni, due uomini politici molto in vista. Il segretario del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer e il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro.

Il primo è un comunista convinto, ma anche uno che comincia a dubitare del ruolo guida dell’Unione Sovietica e che sogna una via italiana, e democratica, al socialismo. L’altro è un politico molto intelligente e pragmatico. All’interno della Democrazia Cristiana, è uno di quelli che da sempre spinge per l’alleanza con la sinistra per modernizzare l’Italia e isolare i fascisti. L’incontro tra i due promette bene, ma ha  molti ostacoli sulla sua strada.

In particolare, il fatto che -sempre più- anche la sinistra estrema sta scegliendo la via della violenza.

Sono nati diversi altri piccoli gruppi comunisti che credono nella lotta armata. Uno di loro, intorno al 1974, diventa più forte e organizzato, più radicale e senza scrupoli, pronto a lasciare la propria eredità di sangue negli anni di piombo.

È il gruppo delle Brigate Rosse, ma di loro parleremo la prossima volta.

 

Clicca qui per scaricare il pdf

 

Ti piace Salvatore racconta? Sblocca gli episodi premium

 


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *